Liù, una storia d’amore

domenica, 18 ottobre 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
“E l’ho mica voluto io, il cane”. La responsabilità della scelta, di fronte agli sguardi ironici dei colleghi e dei superiori, è meglio lasciarla al ben noto sentimentalismo da sesso debole: cioè alla moglie.
Fin dall’esordio di Liù. Biografia morale di un cane (Mondadori), Edmondo Berselli sollecita un moto d’immedesimazione nel lettore. Siamo con lui, imbarazzato, mentre rivela l’ingresso nella sua vita di un cucciolo di labrador femmina dal pelo nero, di fronte a persone autorevoli con le quali abitualmente discetta di scienza politica o al massimo cazzeggia di football.
Capisco quel che ha provato Berselli. Anni fa toccò pure a me ritrovarmi una bassotta a pelo ruvido inclusa nel “pacchetto” della mia nuova vita sentimentale. Non appena mi vide di fianco a tale quadrupede il direttore dell’epoca si sbellicò, insistendo che come penitenza percorressi l’intero open space della redazione, a esibire la retrocessione di status: maschio al guinzaglio. A parziale risarcimento del disagio provato, sappia Berselli che pure quel direttore fu visto in seguito a passeggio con bestia, medaglietta e sacchetto per la raccolta delle deiezioni (viva il senso civico) foriero le prime volte del ben noto choc da tepore inaspettato della materia.
Il labrador è un animale specialmente bavoso e odoroso, le cui zampe ticchettano sul parquet domestico mentre il muscolo della coda detiene energia sufficiente all’abbattimento dei soprammobili. Il tractatus berselliano deve coprire dunque l’arco di un decennio, compresi i tre anni di insistenze della moglie, per darci conto di come infine Liù abbia conquistato il diritto di giacere sul fondo del lettone, tra i piedi dei genitori acquisiti. Ci addentriamo nella macchinazione ordita dagli amici già proprietari di cani, ovvero già caduti nella trappola, e nelle ripetute visite ai cuccioli nell’allevamento varesotto di Cermenate, per seguire la cronaca intellettuale di un cedimento. L’autore, di fronte all’immagine di quei cotechini baffuti, si lascia andare: “come sempre quando vedo i neonati, a me viene da piangere”.
E’ l’inizio di una metamorfosi tanto prevedibile quanto stupefacente, scaturita da una scoperta preliminare, al cospetto di un cane altrui che “non si comporta proprio come un animale”. Di più: “Sembra possedere lo stigma di una individualità, un corpus di elementi singoli e coordinati che esulano dai comportamenti meccanici della specie”.
Prima di ammettere la metamorfosi, e anche dopo, Berselli ci tiene a esibire per intero il suo pedigree filosofico. Forse in competizione con le giravolte e i salti di Liù, l’autore a ogni pagina ci avvolge nei suoi virtuosismi teoretici esilaranti. Che nessuno osi prenderlo sottogamba: “Cito Nietzsche in tedesco meglio di Galimberti e forse anche di Cacciari, che ha un accento un po’ troppo venessiàn”. Dunque è proprio il Berselli che conosciamo, niente affatto abbrutito, l’uomo che in un appartamento modenese ripulisce le pisciatine con l’alcol e accetta di essere leccato. E’ il politologo raffinato l’uomo che si trascina nelle albe nebbiose al parco Ferrari, dove al primo sguardo si riconosce la tipologia dell’altro padrone di cane. E’ il cantore dell’ironia emiliana l’uomo destinato a commuoversi di fronte ai reclami bisognosi di compagnia di Liù, fino al passaggio decisivo: il giaciglio canino traslocato nella camera da letto, sancendo il definitivo ingresso in famiglia. La cagnolona. La reginetta della casa. L’elogio dell’intelligenza del cane. La filosofia della cagnara. Prima dell’imperdonabile deroga già citata, il salto definitivo sul lettone: “E io tra di voi”.
In un sussulto di dignità Berselli ci tiene a precisarlo: “Sia ben chiaro che questa non è la storia di un cane”. E’ la storia della metamorfosi di Berselli, difatti. Ovvero di un cinquantenne sposato che a testa alta si infila nel “vicolo cieco spaventoso, dove il cane ti rende impossibile la vita, le vacanze, il lavoro, la normalità, e tu ti ridurrai a essere un povero disgraziato attaccato a un guinzaglio, un infelice costretto ai voleri indisponenti di un essere selvatico e senza creanza, possessivo ed egoista, nonché magari sciaguratamente innamorato proprio ti te”.
Ci voleva tanto a capirlo? Benché l’autore tenti di nasconderlo con tonnellate di aneddotica e quintali d’erudizione (troverete tutti, da Benedetto Croce a Shel Shapiro, passando per Wittgenstein e Indro Montanelli) con Liù Berselli rifonda da par suo il genere del trattato amoroso. Ora non arrossisca e non si tiri indietro: nel descriverci l’amore che prova nei confronti delle sue due femmine, Marzia e Liù, il professor Berselli si rivela più Rimbaud che Alberoni.
Il crescendo sinfonico del libro, con gran finale movimentato allegro in cui è previsto –in sorta di commiato- il raduno di tutti gli amici in festa, trasfigura in uno scodinzolio collettivo il pretesto fornito da Liù. Che per fortuna viene amata per quello che è, un labrador, senza bisogno né di umanizzarla né di beatificarla: “Il cane non è buono in sé, è un produttore di effetti, un generatore di sentimenti, una polarità di emozioni e gesti e good vibrations”.
Ecco spiegata la metamorfosi: il cane cambia l’uomo entrato in relazione con lui. Lo rende più buono, più intelligente, più sano. Perfino lo riconduce dai vertici prepotenti delle ideologie allo “stare immerso nelle cose e cercare soluzioni parziali”.
Così il poema amoroso di Berselli ci cattura, e la suspense di una calza blu di cashmere ingoiata con pericolo d’intasamento digestivo ci scuoterà più di una qualsiasi disputa tra umani incapaci di relazione col bau bau di tutti i giorni. Perché il cane, succedaneo della prole in tempi di denatalità, si rivela infine il liberatore del nostro miglior spirito animale.

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