Troppi Veltroni in uno

mercoledì, 18 novembre 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Quando un leader politico si dimette dopo una sconfitta, separando generosamente il suo destino personale da quello del partito che dirigeva, egli merita per ciò stesso rispetto generale. Se dunque mi interesso ancora alla vicenda pubblica di Walter Veltroni, da dieci mesi ex segretario del Partito Democratico, non è per riproporgli un dissenso politico –acqua passata- ma perché le contraddizioni da lui vissute contengono forse un insegnamento più generale.
Comprendo bene che un uomo nel pieno delle sue energie (Veltroni ha 54 anni, siamo coetanei), stimato e impegnato, possa concepire difficilmente un radicale cambio di vita, o addirittura un ritiro nella sfera privata. Simili passaggi esistenziali sono rarissimi nelle ultime generazioni.
Veltroni, poi, fin da giovane ha aspirato a modernizzare la militanza, riunendo nella stessa personalità il dirigente politico e l’intellettuale creativo. Ciò lo ha condotto a intraprendere con successo vari mestieri, più o meno legati all’attività di partito, con una vocazione culturale coronata dalla pubblicazione di due romanzi di successo. Nel frattempo era stato proprio in campo televisivo e cinematografico che, prima di fare il sindaco di Roma e il candidato presidente del Consiglio, Veltroni aveva rivelato un’indubbia “arte del comando”.
Tale modernità d’intrecci è ammirevole ma produce una distorsione in chi la vive: lo sospinge a soffermarsi molto sulle modalità della comunicazione, fino a sottovalutare l’importanza della biografia.
Mentre perseguiva un’immagine diversa rispetto alla politica tradizionale, enfatizzando il valore della discontinuità, la maggioranza dei cittadini lo soppesava in base a ciò che nella vita lui aveva mostrato di saper fare. Cioè il politico, formatosi in una decennale carriera negli apparati di partito.
Un funzionariato degno e prestigioso, ci mancherebbe. Ma il fatto è che Veltroni diffondeva un messaggio opposto. Rispetto a D’Alema, perfino sprezzante nel rivendicare il professionismo politico come tecnica del potere, Walter giocava parecchio con la propria biografia. Fino a quella promessa nobilissima ma impervia che gli è inevitabilmente rimasta appiccicata: lasciare la politica istituzionale dopo aver fatto il sindaco di Roma, per dedicarsi al volontariato in Africa. Sottovalutare l’alone d’insincerità procuratogli dalla “leggenda africana” è stato qualcosa di più che un errore per Veltroni: ne ha rivelato una lacuna.
La biografia, difatti, è fattore decisivo nella leadership contemporanea. Ancora nel febbraio 2009, quando rassegnò le dimissioni da segretario del Pd, Veltroni fu vittima di sarcasmi: cosa farà adesso, andrà in Africa? Sicché, dopo un silenzio durato qualche mese, l’annuncio di un suo impegno prioritario nella lotta alle mafie del Sud Italia è stato accolto con rispetto, certo, ma difficilmente lo si accredita quale vera scelta di vita. Perché l’Africa prima? Perché l’antimafia ora? E domani?
La modernità comunicativa del dirigente politico si rivela così un’arma a doppio taglio. Veltroni ha da poco pubblicato con lusinghiero successo di pubblico e di critica un romanzo generazionale, “Noi” (Rizzoli). Poi vieni a sapere, ohibò, che in guisa di presentatori della sua opera narrativa ha chiamato un politico (Pierferdinando Casini) e un banchiere (Corrado Passera). Troppi Veltroni in uno?
“Vanity Fair”.

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