Questa recensione di Luciano Lanna a “Scintille” è uscita sulla prima pagina de “Il Secolo d’Italia” il 17 novembre scorso.
Quanti pensieri può ispirare il gioco dei passaporti, intorno a una tavola imbandita di mezzeh libanesi, gli antipasti più buoni del mondo, e
di pesce fresco». Soprattutto a chi, come Gad Lerner, ancora a vent’anni, nel lontano 1974, era uno spaesato giovanotto del tutto «privo di cittadinanza». E che solo recentemente è tornato nella sua Beirut – la città dove è nato il 7 dicembre 1954 – per recuperare anche una copia del suo certificato di nascita: «Fu un vera noia – ammette adesso – non poterne disporre ogni volta che mi toccava rinnovare il permesso di soggiorno e nei vari tentativi respinti di ottenere la cittadinanza italiana, giunta solo nel 1986, dopo trent’anni che vivevo ininterrottamente in Italia, e solo grazie al mio primo matrimonio». È un passaggio che Lerner vuole spiegare a chi non ne è consapevole: «L’ho avuto tardi, il prezioso lasciapassare dell’Unione Europea, dopo aver sopportato per trent’anni gli odiosi impedimenti burocratici dell’espatrio cui venivo assoggettato in quanto apolide, così come capita ai titolari di nazionalità considerate scadenti».
Questo e molto altro il celebre giornalista ce lo racconta in una sua autobiografia davvero ben scritta e che si legge come fosse una saga familiare d’invenzione letteraria: “Scintille. Una storia di anime vagabonde” (Feltrinelli, pp. 222, € 15,00). Un libro che integra e completa il discorso già avviato con i precedenti “Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità”
(Feltrinelli) e “Martiri e assassini” (scritto insieme a Franco Cardini per Rizzoli). In questo nuovo libro, in cui Lerner si definisce «levantino d’Europa», approfondisce la stessa tematica attraverso un suo viaggio, reale e immaginario nel contempo, alla ricerca delle proprie radici familiari. Ne scaturisce un grande omaggio al paesaggio antropologico e mosaico culturale euro- mediterraneo, che si delinea tra i Carpazi e Beirut, Smirne e il Piemonte, Gerusalemme e Parigi, Leopoli e Milano, il Tigullio e Aleppo. Su tutto vale una conversazione riportata alla luce della visita di Gad nella sua città natale. «Cosa ci fa lei a Beirut?».
«Sono un ebreo nato qui, grazie al mio nuovo passaporto italiano ieri ho potuto visitare la mia vecchia casa». Risponde l’interlocutore:
«Che bella coincidenza, io sono un palestinese, fuggito in Libano da bambino, quando la mia casa è caduta in mano agli israeliani». In fondo quello che lui chiama il “gioco dei passaporti” si aggroviglia proprio lì, «lungo la linea di confine – scrive – tra il mio Libano e la mia Israele, dove la <
mia Italia è stata chiamata a interporsi come
cuscinetto a tutela di una pace precaria. E dove mia madre Tali scendeva in spiaggia a raccogliere conchiglie mentre mio nonno Joseph Taragan mostrava i documenti ai funzionari britannici e francesi dopo la caduta dell’impero ottomano».
Il riferimento alla memoria familiare è centrale in tutta la ricostruzione perché è un po’ la chiave del complesso viaggio che spiega lo stesso titolo del libro. “Gilgul” significa infatti, nella Qabbalah, il frenetico movimento delle anime erranti che ci girano intorno quando il distacco dal corpo è figlio di circostanze ingiuste e dolorose, “scintille” d’anime prodotte dalla loro frantumazione. “Ai padri perdòno” si intitolava qualche anno fa un bel saggio di Geminello Alvi che rilanciava la necessità di una riconciliazione civile e spirituale con i nostri genitori. Un’analoga preoccupazione ispira anche le intriganti pagine di Lerner, felicemente intrecciate tra biografia, memoria e reportage.
«Non siamo tributari al padre e alla madre – si legge nella premessa – di una nozione retorica d’onore e di gloria, come la tradizione potrebbe indurre a equivocare. Siamo invece tenuti a dare ai genitori il loro giusto peso, la dovuta importanza. Non trattare con leggerezza tuo padre e tua madre, se vuoi prolungare una vita degna e consapevole. Sforzati di comprenderli anche in ciò che non ti hanno trasmesso. Solo così ti rappacificherai».
E in effetti Gad non è mai andato d’accordo con suo padre Moshé, non gli sono mai andati giù quei suoi improperi aspirati in arabo, quel suo eloquio maldestro tipico delle persone cresciute senza una vera lingua madre. «Ricordo – annota Lerner – una sorta di pantomima quando nel 1969 appesi in camera il poster di Che Guevara e lui si prese la briga di affiancarmelo con un ritratto di Moshé Dayan, oltretutto decisamente meno estetico con quella benda sull’occhio sinistro. Mio padre rideva di me…». Del resto Moshé Lerner è, ancora oggi a ottantatré anni, un apolide, un fuggiasco, un uomo che forse non ha mai trovato una sua naziona adottiva, che nel 1956 ricorse anche a un passaporto panamense: «Le foto giovanili lo ritraggono come un bell’uomo dagli occhi grigi e la carnagione olivastra vestito alla moda occidentale sotto il sole di Beirut. Sorrideva al futuro dopo anni di catastrofi europee e di guerre mediorientali superate acrobaticamente nella più totale inconsapevolezza». Un’infanzia e una giovinezza accanto a ucraini e polacchi, maroniti e armeni, greco- ortodossi e musulmani, i suoi ebrei e i siriani.
Visto che tutto ciò a Gad è stato in qualche modo precluso, visto anche che la confidenza con i genitori s’è ridotta col passare degli anni a mero ricordo dell’infanzia, è nato quindi in lui l’impulso a viaggiare, a visitare i luoghi della complessa memoria familiare, «frugando – come spiega – in un mosaico di felicità perdute». Da cui numerosi e disordinati viaggi fra Libano, Israele, Ucraina, Polonia, Lituania, Algeria… E i luoghi ancestrali della sua famiglia, plasmati dalle nazionalità mescolate e intrecciate dell’impero ottomano e dell’impero asburgico gli appaiono come lo specchio nel quale riflettere anche la propria vita: «Lungi dall’essere periferie marginali, le regioni orientali, di cui il Novecento ha sconvolto equilibri consolidati da secoli, esprimono un dilemma cruciale del mondo contemporaneo». È passato un secolo, commenta Lerner, ma sui territori della Mezzaluna non è stata trovata un’alternativa efficace al dosaggio fra etnie, nazionalità e confessioni religiose che i sultani turchi avevano codificato nella loro sintesi a mosaico. Così come non hanno ancora trovato pace tanti territori su cui regnava per secoli la nera aquila bicipite degli Asburgo e dove era normale, un tempo, «che la processione in onore di sua maestà l’imperatore fosse guidata a braccetto dal pope, dal rabbino e dal parroco». Guardando contemporaneamente alla Galizia di suo padre e al Libano di sua madre e risalendo dal Mediterraneo ai Balcani, dal Caucaso sino alle Repubbliche baltiche, l’autore di Scintille è costretto a rilevare come oggi si sia tornati di nuovo a fare i conti con alfabeti che, di guerra in guerra, si sovrappongono nei cartelli stradali e nell’insegnamento scolastico: con popolazioni che si odiano parlando lingue quasi identiche, e dappertutto gli stessi bambini emaciati indossano le stesse divise calcistiche, sotto antenne paraboliche che pubblicizzano lo stesso lusso remoto. Oltre il Novecento, sconfitto il razzismo antisemita hitleriano, fallita la repressione sovietica delle nazionalità, caduta l’utopia del panarabismo laico degli anni Sessanta, le regioni in cui hanno vissuto i Lerner sono ancora alla ricerca di una composizione armonica: «Senza che gli imperi di Istanbul e di Vienna, distrutti dalla Prima guerra mondiale, abbiano trovato degni sostituti nella mediazione fra universalità dei diritti di cittadinanza e specificità delle etnie».
Il portato delle ideologie nazionaliste che hanno devastato quegli assetti secolari di convivenza plurale è stato la tragedia del ’900:
«Fa male riconoscerlo, perché a quella forma di patriottismo si erano aggrappate moltitudini di persone, ma i nazionalismi che ho incontrato nel mio viaggio sono ormai tutti decrepiti, sionismo compreso.
Inadeguati alla pluralità naturale dell’umana convivenza, dopo che si è constatata l’impossibilità di far combaciare a forza gli Stati con le nazioni. Fallita è l’illusione di plasmare dall’alto, sul territorio, un popolo omogeneo che gli corrisponda».
Sarebbe stata concepibile, si chiede Lerner, una Istanbul solo turca, una Haifa solo ebraica, una Alessandria solo musulmana? La loro brutale e innaturale metaformosi novecentesca rimanda, dopo il fallimento del secolo breve, a un ripensamento del mosaico euro- mediterraneo. Il filosofo ebreo Martin Buber, da lui citato, spiegava che la terra può esercitare un influsso santificatore sull’uomo. Ma precisava che «la terra può anche trascinare l’uomo in basso e istigare la sua presunzione contro lo spirito». La nazione e l’identità, insomma, non potranno mai essere racchiuse nella consanguineità e nel pezzetto di terra dove si è nati e cresciuti.
Aggiunge Lerner: «Come l’identità personale, anche la nazione va considerata un perseguimento dinamico, rivolto al futuro». E così
conclude: Se fossi rimasto a vivere là dove sono nato, a Beirut… me lo sono già chiesto. Dovrei piuttosto chiedermi cosa ne sarebbe di me se non avessi attraversato il mare, se non fossi italiano. Se la vita non mi avesse sospinto al di là del passato».
Luciano Lanna