Lo scricchiolio sinistro di Dubai

giovedì, 3 dicembre 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Lo scivolone finanziario mondiale provocato da una società di real estate dell’emirato arabo del Dubai (che già da qualche mese pubblicizzava le vendita di due appartamenti al prezzo di uno!) è qualcosa di più che un avvertimento sinistro. Viene infatti a ricordarci che nel mondo esistono isole di falsa ricchezza con le quali abbiamo nutrito la fantasia, rimodellato l’estetica, creduto nel denaro germogliante fra la sabbia, né più né meno di Pinocchio inebetito nel paese dei balocchi.
Dubai non ha neppure giacimenti d’oro nero. E’ finanza, economia di carta trasformata in scenografia dell’opulenza inventata dal nulla. La buffonata degli alberghi a sette stelle (come se cinque non bastassero). La pista di neve artificiale per sciare (male) nel deserto. Il progetto di clonare sull’oceano Indiano una baia ligure uguale a Portofino (l’inimitabile).
Il delirio modaiolo ha trascinato a Dubai di tutto e di più, dalle star dell’architettura alle escort col tariffario da sceicco. I centri commerciali del lusso sorgevano da cantieri incandescenti dove la manodopera immigrata subiva un trattamento poco meno che schiavistico. Lo stesso riservato alle cameriere del jet set.
Ci hanno spiegato che Dubai era il futuro del capitalismo, il virtuale in grado di sfidare le leggi di natura e il clima ostile per sovrapporsi alla banale realtà. Sociologi e letterati ricevevano inviti per decantare il mondo nuovo (è toccato pure a un romanziere d’intelligenza spietata come Walter Siti il soggiorno-premio in cambio di scrittura). E ora? Si sono accorti che comprare casa a Dubai è un business insensato come prenotare una vacanza sulla luna. Ci vai, constati che è un posto da star male alla sola idea che diventi il centro del tuo mondo, saluti e riparti in cerca di un luogo meno artefatto.
Gli esperti ci rassicurano: Dubai si trova al centro di un contesto arabo che dispone di risorse sufficienti a pagarne i debiti pur di evitarne il fallimento. Soffriranno alcune banche britanniche e i fornitori più imprudenti del lusso, ma l’economia mondiale non si lascerà trascinare di nuovo in basso da quell’emirato lontano. Speriamo abbiano ragione, ma personalmente sono diventato molto sospettoso. Lo scricchiolio di una cittadella del lusso che ostentava la sua irrazionalità, conferma difatti che le bolle speculative non hanno finito di scoppiare.
Se i dipendenti della banca d’affari Goldman Sachs potranno spartirsi quest’anno 20 miliardi di dollari, e pure altri loro colleghi specializzati in derivati finanziari speculativi tornano a guadagnare parecchio (profittando, non dimentichiamolo, dei sostegni pubblici con cui si è impedita una catena di fallimenti), l’evento non promette alcun ritorno alla normalità perduta.
So bene che non esiste economia reale che possa fare a meno della finanza. Diffido dai politici che prima della recessione bivaccavano nelle foresterie delle Borse e ora fingono di prendersela con gli eccessivi introiti dei banchieri. Però ho capito che la ripresa economica decantata frettolosamente, senza avere modificato una sola regola della finanza internazionale, esclude il segno più a una voce decisiva: l’occupazione. In altre parole, i titoli azionari recuperano le perdite dello scorso anno salutando ondate di licenziamenti. E l’economia ritiene di poter crescere con meno posti di lavoro, cioè più gente che sta male.
Come non cogliere, allora, la sincope di Dubai come il segnale di una malattia che ci riguarda tutti?

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