Claudio Magris: nazionalità in divenire

mercoledì, 9 dicembre 2009

Questo mio dialogo con Claudio Magris su “Scintille” è uscito sul “Corriere della Sera” il 7 dicembre 2009.
Pochissimi libri come Scintille. Una storia di anime vagabonde di Gad Lerner fanno capire la verità poetica e umana di quella famosa parabola di Borges in cui si parla di un uomo che dipinge paesaggi – fiumi, boschi, monti, città – e alla fine si accorge di aver dipinto il proprio volto. Questo libro è qualcosa di molto diverso da tutto ciò che ha reso Gad Lerner giustamente famoso quale giornalista e grande conduttore televisivo; diverso anche dagli altri suoi libri, anche se con la sua opera e col suo lavoro precedente ha in comune la fulminea capacità sintetica, la simbiosi di lievità e profondità, di rispettosa pacatezza e precisa, anche dura presa di posizione. E’ un libro essenziale e forte, con una sua asciutta, dissimulata poesia che segna il lettore.
Scintille è un viaggio, nel mondo e in se stesso; in un mondo particolarissimo e insieme universale, provinciale e sovranazionale come l’identità ebraica, legata alla peculiarità dello shtetl, del piccolo borgo ebraico, e sparsa, in virtù dell’esilio, in tutto il mondo, in una migrazione – spesso dovuta alle persecuzioni – che rende casuale e talora sorprendente il luogo di nascita e in una continua trasformazione della nazionalità. Lo stesso Lerner è nato a Beirut; dunque uno dei maggiori giornalisti italiani potrebbe essere libanese, se la storia del Medio Oriente negli anni della sua prima infanzia fosse stata diversa, ma al contempo egli è anche – e potrebbe essere soltanto – un ebreo polacco come il padre originario di Boryslaw, la cittadina galiziana capitale del petrolio e poi teatro di un grande massacro nazista.
Uno degli affascinanti pregi del libro consiste pure nella concreta, intensa evidenza con cui mostra come si costruisca – e non solo nel caso di Israele – una nazionalità, senza che ciò infici l’autentico, essenziale sentimento di appartenenza a una patria. Come ogni viaggio che si rispetti, pure questo di Lerner parte da una mappa, soprattutto mentale, ma una mappa che durante il viaggio si aggiusta, si corregge, si trasforma, come un viso nel corso degli anni e delle esperienze che lo segnano.
E’ anche una storia di famiglia, alla ricerca di chiarire a se stesso la propria realtà, la propria identità multipla in cui confluiscono sefarditi e askenaziti, impero ottomano e impero absburgico, bellezza del paesaggio libanese e torpida malinconia di quello europeo orientale. Se ci sono state tante saghe famigliari ebraiche, ciò deriva dal fatto che quella ebraica condensa ed esalta le contraddizioni presenti in ogni famiglia, concentrato dell’universale-umano: la gelosa chiusura identitaria e le mescolanze che la meticciano in ogni nuova unione, i legami affettivi e gli oscuri rancori, la tradizione e il suo perdersi.
Il dramma della propria mappa personale, tracciata strappata e ricucita, s’intreccia a un drammatico capitolo di storia del mondo, in un libro che abbraccia esilio e Shoah, Italia Israele Mitteleuropa e Levante musulmano, “infelicità araba” e Gilgul, il vorticoso movimento delle anime vagabonde intorno alla separazione dei corpi secondo la mistica ebraica, l’antisemitismo e l’orrore di Sabra e Chatila.
“In questo viaggio”, chiedo a Gad Lerner, “ti sei ritrovato o perduto, hai disegnato meglio il tuo volto, come nella parabola di Borges, o l’hai reso più indistinto? Insomma, le tue anime vagabonde si sono riunite o almeno avvicinate o si sono ancor più disperse?”
LERNER – Provo serenità, innanzitutto, un certo sollievo. Tanto doveva, l’ebreo fortunato che io sono, alle anime familiari vagabonde la cui irrequietezza continua a vivere in me. Accetterò dunque, malvolentieri, la verità della parabola di Borges. Sopporterò l’idea di aver dipinto il mio volto sgradevole: non per vezzo autobiografico, ma perché quelle anime familiari meritavano il risarcimento della consapevolezza. La paura di affrontare il dolore, ma anche un imperdonabile senso di vergogna, avevano ostruito il canale di trasmissione naturale del racconto, dai nonni ai genitori a me e i miei fratelli. La scrittura, infine, permette che la mia buona sorte s’inchini davanti al travaglio d’infelicità che l’ha generata.
Sottopongo il lettore a un girovagare continuo, e tu noti che in “Scintille” il racconto della nazionalità risulta sempre provvisorio, in costruzione. Ma questo libro avrei potuto scriverlo solo in italiano. Credo sia un’esperienza sempre più frequente nel mondo contemporaneo: è grazie alla mia nuova cittadinanza che posso riconoscere i legami con le altre patrie che mi porto dentro.
MAGRIS – “Questo tuo viaggio ha una sua peculiarissima, multipla fisionomia; è un viaggio nella diaspora e nel ritorno alla Terra Promessa, nel destino ebraico e in quello arabo e soprattutto nel destino odierno di una crescente mescolanza, che ora esalta ora intimorisce. Come vedi, con la tua esperienza, il futuro di questo incontro e di queste mescolanze nel nostro Paese? Vedi più integrazione o più rifiuto o vedi un drammatico pericolo che il numero di chi arriva possa crescere sino a rendere impossibile l’accoglienza, non per stolidi pregiudizi, ma per insormontabili difficoltà materiali?
LERNER – Frequentavo una scuola elementare di Milano nel 1961, quando si celebrava il centenario dell’Unità d’Italia. Sarò grato per sempre alla mia maestra, Ada Fiecchi, per come seppe farmi innamorare degli eroi del Risorgimento nazionale, sebbene fossi un nuovo arrivato. Perché non dovrebbe ripetersi tale esperienza d’inclusione, pur nelle mutate circostanze? Tanto più che la storia non si ferma. I miei nonni nacquero sudditi di imperi sovranazionali: i nonni materni nella Palestina ottomana su cui regnava il sultano di Istanbul; i nonni paterni nella Galizia asburgica, governata da Vienna. Di mezzo ci sta il nostro secolo, il secolo dei nazionalismi. Ma i nostri nipoti difficilmente vivranno negli Stati nazionali scricchiolanti così come oggi li conosciamo.
MAGRIS – “Mentre tutta la storia di famiglia, con le sue ramificazioni che abbracciano persone di paesi e culture diverse, con i loro pregi difetti e contraddizioni, s’intreccia epicamente e nonostante tutto serenamente alle vicende storiche e collettive, c’è nel tuo libro una lacerazione, una ferita che brucia: il rapporto aspro, duro con tuo padre, narrato con una dolorosa ma impietosa sincerità che può turbare. Hai voluto, dovuto parlarne così apertamente? Ne hai sofferto, te ne senti anche un po’ colpevole, credi di aver riscattato quella frattura narrandola? E un po’ il dramma di ogni autentica letteratura, perché la parola esatta, diceva Thomas Mann, ferisce sempre. In ogni caso, non si potrebbe mai parlare con altrettanta sincerità dei propri figli…”
LERNER – Farò tesoro di questa citazione di Thomas Mann –la parola esatta ferisce sempre- per cercare consolazione e conciliazione alle ferite di mio padre –ma non immagini quanto di mia madre!- cui il mio libro strappa i cerotti. Dovevo risparmiargliela, questa impietosa sincerità? Quanto me lo sono chiesto, sollecitato da amici che ritenevano eccessiva l’indiscrezione cui sottoponevo i miei vecchi. Ho attenuato, smussato. Ma la molla che mi ha sospinto a viaggiare, e a spiegarmi per via storica le incomprensioni familiari, il venir meno della confidenza, non poteva venire nascosta. Cerco la pace, con mio padre e mia madre. “Scintille” è un protendersi verso di loro. E sarà pure vero che dei genitori non potrebbero parlare con altrettanta sincerità dei loro figli. Ma quanti ne vedo soffrire imprigionati nella retorica dei buoni sentimenti –cosa vuol dire volersi bene?- accampati come giustificazione delle reticenze, elusioni, censure da cui nessuno trarrà giovamento.
MAGRIS – “Per tuo padre – scrivi in una nota fulminea – «la propria esperienza era divenuta inenarrabile». A parte il suo caso, si tratta di un motivo fondamentale, particolarmente oggi, della nostra vita e del suo racconto ossia della letteratura. E’ sempre più difficile distinguere le proprie esperienze da quelle degli altri, la realtà dalla sua riproduzione fittizia o dalla sua parodia; ci si sente un po’ dei cloni. L’ebraismo da un lato ne è colpito in modo particolare – la Shoah non è narrabile, chi la visto la Gorgone non può dirlo – ma d’altro canto ha opposto un’accanita resistenza alla spersonalizzazione e ha difeso la peculiarità dell’esperienza individuale. Tu senti narrabile o inenarrabile la tua esperienza?”
LERNER – Attraversare inconsapevolmente la storia, anche quando essa ti s’impone com’è successo alla mia famiglia col peso di eventi fuori dal comune, resta un destino molto comune. Ma ti rendi conto? Io ero un ventenne che leggeva i tuoi libri su Joseph Roth e il mondo yiddish ignorandone il nesso con la vicenda di mio padre, con il fastidio suscitato in famiglia dalla nonna sopravvissuta, con i nostri luoghi galiziani di cui nessuno ci parlava. Inenarrabili a causa del dolore, per l’assenza di personalità adeguate a comprenderli? Certo che a noialtri privilegiati il narrare riesce molto più semplice. E se non altro, lo dobbiamo ai nostri figli.

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