Copenhagen, la mediocrità del 2009

mercoledì, 23 dicembre 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Il 2009 era cominciato con l’attacco israeliano a Gaza, avvertimento preventivo al nuovo presidente degli Stati Uniti non ancora insediato, che non esagerasse con le sue aperture multipolari. Ne è seguito un anno mediocre in cui il mondo è sfuggito ad altre guerre disastrose ma ha continuato a impoverirsi. Finché, a chiudere il 2009, è giunto il fallimento della Conferenza mondiale sul clima di Copenhagen, cioè il vertice più atteso sulle sorti del pianeta; dopo che già la diplomazia internazionale aveva dovuto arrendersi alle resistenze del potere finanziario lasciando briglia sciolta –viva il Dio mercato!- alle regole sul flusso di capitali. Come se il crack non ci fosse mai stato.
Obama ha vinto il Nobel delle buone intenzioni. Ha tamponato la sofferenza sociale del suo paese. Ha intavolato un dialogo col mondo musulmano e le superpotenze emergenti innervosite dall’arroganza del suo predecessore Bush. Forse non si poteva chiedergli di più: a Obama tocca gestire il declino dell’impero; pilotare un atterraggio morbido che preservi l’America dalle bufere monetarie, dalla depressione, dalla guerra. Gli tocca trattare con leader consapevoli di avere il tempo dalla loro parte: il cinese Wen Jiabao, l’indiano Singh, il brasiliano Lula e pure il russo Putin guidano paesi che si sentono in credito con gli Stati Uniti. Per non parlare degli Ahmadinejad e dei Chavez abituati a campare sull’ostilità antiamericana.
Il quadro di un 2009 mediocre, tenuto per fortuna distante dal baratro di un conflitto mondiale ma nell’accentuarsi di una crisi di leadership, nella latitanza di un coordinamento minimo di fronte alle emergenze, si è infine rivelato a Copenhagen: teatro di un’assurda babele delle diagnosi ecologiche e di una totale incomprensione reciproca di fronte al surriscaldamento del pianeta. I grandi della Terra hanno giocato con la salute dei nostri figli, come se fosse loro preclusa la lungimiranza, perché ciascuno di loro aveva ricevuto il mandato elettorale di assumere priorità differenti, immediate, modeste.
Chi ha fatto il “grandioso”, cioè l’Unione Europea con la sua proposta di tagliare le emissioni del 25-30% entro il 2020, in realtà sapeva di esercitare un ruolo marginale nella trattativa. Un’Europa virtuosa perché impotente. La Cina a sua volta disdegna queste sedute collettive in cui bisogna fingersi tutti alla pari da quando mira a incassare i vantaggi del suo rapporto di forza con gli Stati Uniti. Pechino punta al G2, cioè alla trattativa di vertice cino-americana, come nuova struttura di governo del mondo. Che gli altri si adeguino. Tanto più che nel rapporto a due fra debitore e creditore, fra economia in crescita e economia rallentata, la scommessa cinese è di costringere gli Usa a cedimenti strutturali nel tenore di vita e nei consumi tutto a proprio vantaggio, senza giungere a un confronto armato.
Ciascuno giocava per sé, a Copenhagen, sulla pelle di noi tutti. I cinesi non sono interessati a farsi paladini del mondo povero e avvelenato, bensì a inquinare più degli altri per crescere più degli altri. Obama a sua volta deve calcolare le conseguenze sociali interne, potenzialmente devastanti, della politica ambientale innovativa che ha scritto nel suo programma. I sudamericani si distanziano sempre più da Washington. Indiani, russi, sudafricani, turchi, iraniani tramano per primeggiare fra le potenze regionali. Gli europei predicano bene ma puntano a difendere il loro benessere, guardato come un miraggio dagli africani.
Abbiamo statisti che tirano a campare sperando che la situazione non precipiti: rispecchiano il declino della civiltà industriale di cui siamo gli ultimi rampolli viziati. Auguri!

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