Questa recensione di Giuliano Ferrara al mio libro “Scintille” è uscita il 24 dicembre 2009 sulla prima pagina de “Il Foglio”.
Mio padre diceva scherzando, ma con una sfumatura di vera malinconia, che la famiglia è una associazione per delinquere.
Innamorato del mito della ragione, considerava il sangue l’origine dei sentimenti più pericolosi.
L’ultimo libro di Gad Lerner è una resa dei conti traboccante sorpresa, spaesamento ed emozione con la famiglia d’origine, prima di tutti con il padre.
La lettura è una rivelazione, un racconto religioso che mi fa amare questo strano amico e poi nemico e poi di nuovo amico di una vita o giù di lì.
Quanta inimicizia possa contenere un’amicizia è dimostrato infatti dal mio pregiudizio su Gad Lerner.
Lo trovo opportunista, vile, corrivo, obliquo, venato perfino di una certa infamia da primo della classe e delatore del vicino di banco, ma anche intelligente, colto, curioso, vitale e simpaticissimo come capobranco dei suoi figli, compagnone, militante, marito, animale da chiacchiera e convivio.
Ora che ho finito di leggere il suo feltrinelliano “Scintille”, un autoritratto delicato, tormentato, confuso, ho abrogato ogni mio pregiudizio sul tipo umano che è Gad Lerner.
Gli voglio bene, come immagino gliene vogliano migliaia di lettori, e basta.
L’inimicizia nell’amicizia resta, naturalmente, ma confinata alle passioni politiche.
Roba minore, nella maturità di un uomo.
Sono contento che Giulio Meotti di questo libro abbia stroncato, nel Foglio, la parte caduca: l’antisionismo politico, la confusa mistica dell’inappartenenza apolide che induce l’autore ad amare follemente e a follemente detestare lo Stato d’Israele, quella dannata ed esigente terza sua patria di cui sospetta e analizza l’imminente scomparsa, chiacchierando con un emissario di Hezbollah a Beirut.
Qui posso occuparmi d’altro, di quel che molto importa nell’autoritratto di un Bastardo (è il titolo del blog dell’autore).
Qui conta Gad, il falso Lerner in rivolta totale contro suo padre Moshé, il vero Lerner, eroe letterario figlio delle grandi paternità ebraiche di Roth e di Richler ma prototipo originale e in carne ed ossa del medesimo Gad o Dadone; e conta un figlio maschio pieno di innamorata incomprensione verso sua madre, la sensuale Tali della famiglia sefardita dei Tarragan, fiori del Libano e innesti orientalisti in Aleppo, che scambiarono gli anni Quaranta del Novecento, Shoah compresa, per una incantata età dell’oro.
Per non parlare della nonna paterna senz’ombra di Proust, la Mamcia e poi la Teta (arabo per nonna), venuta dalla Galizia.
Teta si procura il fastidio anche fisico del piccolo Gad, perché sembra all’occhio cattivo degli infanti l’anima nera e mesta e scoreggiona della combriccola, una parente di cui vergognarsi; mentre a sorpresa, nell’happy ending, questa cicciona della tribù degli ostjuden si rivela una esagerata “Rotschild dei Carpazi” che ha saputo santificare come pochi altri la sua esistenza di ebrea askenazita, occupandosi soprattutto dell’esistenza degli altri. Senza tanto farlo sapere.
Mamma mia. Nessuno nella generazione di Gad (e dintorni) aveva avuto il coraggio di affrontare papà e mamma viventi e vegeti, e di abbatterli in effigie per il solo fatto di parlarne in piena libertà, in rivolta morale verso il lascito incompreso.
Per uno strappo di quella portata ci vuole la chutzpah, quel carattere ebraico, quella stupenda faccia tosta che non a caso è spiegata attraverso questa celebre storiella: un uomo che ha ucciso i genitori chiede clemenza alla Corte perché è orfano.
Precisamente quel che fa Gad nel proprio resoconto esistenziale, associando il lettore alle sue emozioni in un viaggio zoppicante alle origini dell’inafferrabile Colpa originaria che ricade sui figli.
Perché una lacerazione così profonda prenda forma e trovi le parole ci voleva anche un padre provocatore, un Deus ex machina che preme il grilletto e spara, un Moshé che telefona a una famosa scrittrice dopo aver letto una sua intervista di argomento familiare con suo figlio, e le dice (è l’incipit folgorante del racconto): “Pronto… le interesserebbe avere un’intervista con il vero Lerner?”.
Ci vuole inoltre un divorzio subito con dolore.
Ci vuole una vita paterna disordinata e girovaga, ché Gad certo ama gli zingari ma niente concede allo spirito zingaresco di suo padre, al suo ennesimo appartamento dove le carte accatastate, inservibili, forse inutili, gli impediscono la deambulazione.
E si capisce, visto che il padre si comporta da donchisciotte senza scudiero, affronta da solo e in età avanzata viaggi scomodi per raggiungere il figlio a sorpresa, senza dirgli niente, nelle sue conferenze, e si siede in prima fila, e lo chiama Dadone in segno di sfida, facendolo ribollire d’ira, e gli dice nella sua lingua seduttiva e inaccurata, nel suo italiano parlato come sesto idioma personale, che è bravo sì, bravino il Gad, non a caso è figlio del vero Lerner, ma un paio di consigli paterni lo farebbero ancora più bravo, e riscompare nelle nebbie monferrine senza lasciare dietro di sé altro che strani sentimenti di pudore violato, se non di vergogna.
Ho letto tanta letteratura ebraica purissima e ancora non ho capito se venga prima la paternità abramitica, che fa dei figli tanti Isacco sempre in sospetto di sacrificio, o il Dio monoteista che ordina alla specie di differenziarsi e fonda la stirpe e il suo orgoglio sull’abbandono della casa del padre. In ogni caso in questo libro ci sono pagine di puro amore filiale e di pura resistenza all’amore che ne riscattano qualunque difetto di struttura, qualunque incertezza tra autoritratto e reportage, qualunque eventuale falsificazione inconscia, qualunque genericità.
Nella sua ricerca delle origini, nell’amarezza dei suoi rifiuti, nel viaggio impossibile verso un abbraccio non competitivo e verso un lascito non rassegnato, Gad Lerner non fa come Daniel Mendelsohn o Jonathan Safran Foer, scavatori della memoria e del suo brand artistico, non metaforizza, non usa il realismo magico, non celebra il suo destino fictional, sceglie invece di sbattere in faccia al suo presente, s’imbroglia con il Kaddish, dà vita con rara modestia e onestà spirituale ai suoi fantasmi, e li uccide per sopravvivere.
La morale è ovvia. Volete sapere qualcosa di un predicatore di contaminazioni e di uno spregiatore dell’identità?
Siete ben serviti dal gilgul, il vagabondaggio rotatorio delle anime nel loro esilio, siete serviti dal piccolo informale e artigianale cabbalismo dell’ultimo campione delle famiglie Lerner e Tarragan, dai suoi viaggi libanesi e galiziani, dal suo inseguimento a ritroso di una storia che ha schiacciato i suoi genitori e dalla quale lui, invece, ha una indomabile voglia di riscattarsi.
Dal suo formidabile libro in cui tutto si spiega.
Giuliano Ferrara