Quando la politica si occupa d’amore

martedì, 5 gennaio 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Ho trascorso felicemente il passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo lungo il corso del Nilo, con l’intero mio branco familiare errabondo tra i cimeli dell’antichissimo Egitto. La giusta distanza per ridimensionare la portata dei passaggi d’epoca nostrani: se il 2009 è stato in Italia senza dubbio l’anno del corpo –il corpo femminile in vendita o degradato, il corpo di uomo trasformato in corpo di donna, il corpo idealizzato o plastificato del leader da sfiorare nel bagno di folla o da aggredire nel delirio nevrotico- sarà davvero il 2010 l’anno dell’amore?
Che parola impegnativa, amore, trasferita nel discorso pubblico. Già riserviamo con esitazione il “ti amo” a momenti rari della nostra esistenza: di rado tra genitori e figli, tanto meno tra fratelli che esitano a confidarsi anche solo il più pudico “ti voglio bene” per timore di degenerare nel sentimentalismo. L’amore, in effetti, ritorna più spesso nei sermoni religiosi, soprattutto di matrice cattolica o buddista. Gli altri cristiani, gli ebrei e gli islamici è più facile che citino la giustizia e la misericordia quando invocano benevolenza divina. Se poi cerchiamo la parola “amore” nei comizi e negli scritti politici, saremo costretti a tornare indietro nel tempo e a viaggiare lontano nello spazio fino alla straordinaria epopea del mahatma Gandhi, teorico moderno della nonviolenza e artefice dell’India post-coloniale.
Riuscirà il nostro Berlusconi –dopo l’anno del corpo da lui risolto con l’ammissione: “non sono un santo”- a riciclarsi in santone? Il passaggio dall’io al noi nell’inno salvifico del Popolo della libertà (attenti a non chiamarlo partito); il perdono concesso al suo aggressore Massimo Tartaglia; perfino la ventilata esposizione martirologica delle ferite infertegli sul volto nei tabelloni della prossima campagna elettorale: sono passaggi arditi per un uomo che sulla potenza personale ha costruito la sua medesima auto-rassicurazione. Ma l’amore, addirittura il partito dell’amore, che parte possono svolgere in questa commedia? Ciascuno dei lettori per esperienza diretta converrà che l’amore trasforma sempre l’io in un noi. Ma non è scontato in quale genere di noi.
Il partito dell’amore sarà l’unione di coloro che si riconoscono nell’amore per lui? Quale genere di amore, in tal caso, ci sarà richiesto di provare per Silvio Berlusconi?
Viceversa, è realistico pensare al partito dell’amore come a un gigantesco agglomerato di uomini e donne che divengono popolo in quanto è lui, il capo, a riunirli attraverso un’enorme capacità amorosa? Lo immaginate, Berlusconi, spogliarsi a tal punto del molto che ha e che è, fino all’annullamento dell’ego richiesto da una tale impresa di santità, implicante il caricare su di sé l’altrui debolezza e l’altrui sofferenza?
Mi capitò qualche anno fa di adoperare un facile gioco di parole per criticare in questa rubrica l’insensibilità umana dell’approccio giornalistico di Marco Travaglio: non c’è travaglio in Travaglio, scrissi. Ma stavolta devo condividere la diffidenza manifestata da Travaglio nei confronti dell’abuso del linguaggio sentimentale in politica. E’ spiacevole a dirsi ma trovo profondamente illiberale nella sfera dei principi, e non veritiero nella sfera pratica, pretendere il divieto dell’odio. Così come diffido di chi predica l’amore dall’alto di una posizione di privilegio. Mi accontenterei, nella sfera pubblica, del rispetto delle regole su cui si fonda la nostra comunità. Non vogliatemi male se ve lo dico: il 2010 non sarà l’anno dell’amore.

I commenti sono chiusi.

I commenti di questo blog sono sotto monitoraggio delle Autorità. Ti preghiamo di mantenere i toni della discussione entro i limiti di buona educazione e netiquette in essere come regole del blog. Inoltre usa con moderazione i seguenti comandi di formattazione testo.