Cosa mi aspetterei dal papa in sinagoga

venerdì, 15 gennaio 2010

Questo articolo è uscito su “Shalom”, mensile degli ebrei romani, in occasione della visita in sinagoga di Benedetto XVI attesa per domenica 17 gennaio.
Ciò che per secoli e secoli fu semplicemente inconcepibile –la visita di un papa cristiano nel tempio degli ebrei- risulta oggi accettato come gesto normale, segno del tempo in cui i credenti nel Gesù figlio di Dio non vivono più come una diminuzione il riconoscerne l’umana appartenenza al popolo della Torà.
Nella semantica dei comportamenti, dunque, il ritorno del capo della Chiesa di Roma al cospetto dell’aron hakodesh ha già perduto i caratteri dell’eccezionalità, come dimostra il fatto che la sua ripetizione non viene ostacolata dall’esistenza di controversie liturgiche o storiche. Il papa non è solo il benvenuto. Ormai è il bentornato in sinagoga. Ma proprio l’atmosfera di cordialità, e l’amicizia ebraico-cristiana divenuta esperienza diffusa tra i fedeli, tanto da provocare un riavvicinamento nello studio biblico, determinano la fatica nuova cui viene chiamato Benedetto XVI.
Egli non è il papa dei sorrisi e della benevolenza, quale fu Giovanni XXIII, l’iniziatore del dialogo. Non è il riformatore dei documenti e delle preghiere, quale fu Paolo VI. Non è neppure il papa del mea culpa, capace di gesti di condivisione potentissimi dopo aver vissuto la Shoah come vicenda domestica, quale fu Giovanni Paolo II.
Non a caso Joseph Ratzinger ha assunto un nome discontinuo rispetto ai suoi predecessori. Per le sue ben note inclinazioni personali, e per la conseguente natura del suo episcopato, Benedetto XVI, papa teologo e intellettuale, suscita un’aspettativa ulteriore.
Gli studi che egli ha dedicato al Gesù ebreo sembrano destinarlo ad affrontare un altro passaggio ineludibile del dialogo, dopo che per secoli la persistenza del popolo ebraico venne interpretata dalla Chiesa, sì come un mistero, ma un mistero negativo, quasi una minaccia, un’inaccettabile smentita. E’ questa la ragione per cui di Benedetto XVI attendiamo con speciale interesse i discorsi e i documenti. Ciascuno ha caratteristiche proprie di comunicazione. Più che la trasmissione di emozioni a lui si richiedono i ragionamenti, la sistemazione teorica delle questioni aperte, tuttora inevase.
Quale significato assume la continuità di presenza del popolo ebraico e della sua fede, agli occhi dei cristiani? Essa implica interpretazioni diverse da quelle fornite in passato dei Vangeli e degli Atti Apostolici? Il tema della conversione, soprattutto, ne esce dogmaticamente intatto o richiede una definizione adeguata al tempo nuovo, una dottrina più conforme al mistero della fede?
Mi sono permesso di accennare solo alcune delle questioni enormi con cui suppongo uno spirito rigoroso come Benedetto XVI faccia i conti ogni volta che si misura con la radice ebraica della sua fede. Per questo gli porto rispetto, come è ovvio, ma più ancora credo di intuirne il travaglio: gravano sulle sue spalle responsabilità di aggiornamento teologico che l’amicizia e il dialogo di per sé non bastano a realizzare. Sarà trascorso tempo sufficiente? In fondo stiamo parlando di mezzo secolo scarso.
Dopo la revoca dell’accusa di deicidio. Dopo la prima, storica visita alla sinagoga di Roma. Dopo il bigliettino depositato in una fessura del Muro occidentale a Gerusalemme… No, non mi attendo da Benedetto XVI gesti clamorosi ma invece la sanzione teologica di un’amicizia ritrovata.

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