Questo articolo è uscito su “Il Venerdì” di “Repubblica.
Complicità maschili. Scherzo con un amico ebreo nato in Polonia dopo la guerra, cioè tecnicamente un miracolato (ne furono sterminati 3,5 milioni, cioè più del 90% di una comunità ivi residente da secoli) sulla sua fisionomia semitica inconfondibile del suo volto, contraddetta però dal pene incirconciso. Si rabbuia: “Ma come puoi pensare che i miei genitori, mettendomi al mondo a Varsavia all’indomani della Shoah, mi esponessero al rischio di un tale contrassegno indelebile? E’ già tanto che non mi abbiano tenuta nascosta, per prudenza, la mia ebraicità”.
In effetti parecchi fra i sopravvissuti decisero di cancellarla. Un’amica ungherese ha appreso solo per caso, ormai adulta, che sua madre era stata deportata ad Auschwitz. Si può intuire appena il conflitto familiare derivato da quel nascondimento e dal successivo desiderio di riconciliarsi con l’ebraismo negato. Storie romanzesche come questa sono innumerevoli. Dopo la pubblicazione del mio libro “Scintille” quasi ogni giorno mi pervengono nuovi racconti che fanno impallidire la rimozione familiare dei Lerner sterminati a Boryslaw, nella regione galiziana di Leopoli, dove sono ritornato a cercare non so bene cos’altro se non il perché di un malessere rimasto immotivato. C’è la madre incattivita che ha afflitto col ricatto della sua deportazione i bambini, senza però raccontargli nulla. Ci sono le confessioni tardive. Più spesso le scoperte accidentali da parte di chi si era creduto cristiano. Come lo storico israeliano Zeev Sternhell, battezzato dalla famiglia che l’aveva ricevuto in affido dopo la morte dei suoi.
Da quando l’elaborazione del lutto si è potuta avvalere di una dimensione collettiva, grazie ai memoriali, ai libri di storia e poi ai romanzi e al cinema sulla Shoah –ma soprattutto da quando sono diminuiti i pericoli e anzi l’ebraismo è divenuto un passaporto identitario cosmopolita riconosciuto perfino come fascinoso- la fuoriuscita dal dramma privato ha proliferato come fenomeno inatteso. Per certi versi ambiguo.
Cosa andiamo cercando in Polonia, Ucraina, Lituania, Bielorussia noi discendenti fortunati dispersi fra l’Europa, le Americhe, l’Australia e Israele, là dove un tempo sorgevano gli “shtetl”, cioè i villaggi, o i quartieri ebraici costituenti un universo cancellato?
Con ironia, talvolta, ci definiamo turisti della memoria. Pericolosa e illegittima è la tendenza a ergerci portavoce degli sterminati, quasi che lo status di vittima fosse ereditario. Fra coloro che nell’emigrazione non hanno trovato benessere, ve ne sono –tutto sommato pochi, per fortuna- taluni in cerca di un impossibile risarcimento. Dopo la caduta del regime sovietico e il ripristino della proprietà privata, s’illudono di entrare in possesso di case o imprese passate troppe volte di mano. Perpetuando inutilmente rancori e frustrazioni.
Ma i più cercano altro. Tracce, reminiscenze, accenti familiari, sapori del cibo assaggiato nella cucina dei nonni artefici di una fortunosa, seconda fuoriuscita dall’Egitto biblico.
E’ la nostalgia di luoghi mai conosciuti, per cui ci si attrezza con apposite guide specializzate più o meno competenti e sensibili, non sempre capaci di accompagnarti col pudore straordinario di un Alexander Dunai, “l’ucraino buono” del libro di Daniel Mendelsohn (“Gli scomparsi”, Neri Pozza editore) che di fronte alla fossa comune ti porge il sasso da deporre alla maniera della rimembranza ebraica.
Luoghi? Ma quali luoghi? Anche se il termine sociologico è ormai abusato, meglio sarebbe dire non luoghi. Questa è la differenza fra gli sradicati ebrei e i tanti altri figli di profughi della seconda guerra mondiale, le moltitudini di polacchi e tedeschi e russi che furono trapiantati d’ufficio a seguito delle spartizioni post-belliche.
Ho tra le mani il libro su Leopoli del sommo poeta polacco Adam Zagajewski (“Tradimento”, Adelphi editore), nato in quella città che per secoli fu per un terzo ebraica, per un terzo ucraina, per un terzo polacca. Col bisticcio dei tre diversi alfabeti (yiddish, cirillico, latino) sulle insegne dei negozi fino a quando l’Urss pretese e ottenne nel 1945 la deportazione dell’intera comunità polacca a Gliwice, mille chilometri a nord-ovest, nella Slesia da cui a loro volta erano stati cacciati gli abitanti di etnia tedesca. Zagajewski rimpiange la sua Leopoli a partire dalla nuova Leopoli fasulla sorta artificialmente altrove, dove i vecchi “morivano con sospetto”, e “osservavano stupiti i mattoni prussiani”, non riconoscendo quel luogo, quell’aria, quella terra.
Ma c’è una differenza sostanziale. Se i polacchi furono trapiantati violentemente, gli ebrei di Leopoli invece furono semplicemente eliminati. In più di centomila. La mutilazione della Galizia yiddish da cui provvidenzialmente partirono i miei nonni in luna di miele per approdare nella Palestina del 1925, e dove facevano ritorno in vacanza con mio padre, ha fatto sì che dobbiamo parlare di un vero e proprio mondo scomparso. La cui sopravvivenza è solo virtuale, affidata alla memoria e alla letteratura. La cui ricostruzione parziale per opera degli ortodossi “Lubavitch” che riaprono qui e là delle minuscole, brutte sinagoghe, suona posticcia. Inautentica.
La letteratura, di conseguenza, può giocare dei brutti scherzi. Inoculare dentro un giovane letterato americano come Jonathan Safran Foer il bisogno di partire per la remota campagna ucraina con una foto del nonno in tasca per trarne una favola struggente ma artificiale (“Ogni cosa è illuminata”, Guanda editore). Perché non sarà mai vero che quel luogo immaginario possa rivelargli il segreto della sua identità.
Diversa, per rigore documentario, ma non meno poetica e anzi semmai più coinvolgente è la ricerca ossessiva compiuta dal già citato critico del “New Yorker”, Daniel Mendelsohn, nello shtetl di Bolechow dove fece ritorno dagli Usa il fratello di suo nonno per trovarvi la morte insieme alla moglie e alle sue quattro bellissime figlie. L’impresa di Mendelsohn è straordinaria. Viaggia fin in Australia, in Svezia, in Israele per recuperare le testimonianze degli ultimi sopravvissuti. Poi, dopo una vita di ricerche, con l’aiuto decisivo di Alexander Dunai, riesce fortunosamente a ricostruire fino all’ultimo dettaglio la sorte dei familiari mai conosciuti. Ma Daniel Mendelsohn riconosce il fattore nevrotico che lo ha dominato fin dall’infanzia col bisogno di esplorare i misteri di una famiglia peraltro rimasta unita, forte della sua armonia. Leggendolo, e appassionandomi (anche perché la “sua” Bolechow dista pochi chilometri dalla “mia” Boryslaw), ho provato invidia per la serenità nel rapporto fra le generazioni che contraddistingue la sua parentela.
Per lo più le storie di chi parte alla ricerca dell’impossibile sono viceversa aspre, disseminate di conflitti e malesseri interiori derivati da una mancata trasmissione generazionale. E’ più facile dissimulare il male penetrato nelle anime vagabonde che elaborarne il dolore. Quel che cerchiamo è in noi stessi, non si trova più nell’Europa mutilata dove la memoria rischia di trasformarsi in ossessione.