“L’uomo che verrà”, che grande film!

mercoledì, 27 gennaio 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Non sarò certo il primo, e neppure il più titolato a indicarvi “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti come un capolavoro del cinema italiano contemporaneo. Potevo accontentarmi di guardarlo una domenica pomeriggio d’inverno al cinema, commuovendomi insieme agli altri spettatori che hanno fatto la fila con me per stiparsi nello spazio più ristretto della multisala e che il passaparola renderà –ne sono certo- sempre più numerosi. Invece ho sentito il bisogno di stracciare la rubrica sull’attualità politica che ero in procinto di scrivere, per rendervi partecipi di un’impressione rara che ho provato vivendo sullo schermo la strage di Marzabotto con gli occhi di una bambina di 8 anni. E mi perdonerà Gabriele Romagnoli, che su “Vanity Fair” ha già benissimo intervistato il regista di quest’opera temeraria, anticipandovene il valore. Ma sento il bisogno di tornarci perché è raro poterlo dire, quando ti accorgi che l’arte si è impossessata di te. L’arte in apparenza semplice, di poco prezzo, che oltrepassa il tempo perché rende plausibile narrare l’inenarrabile, e si permette addirittura il lusso di renderti umani i nazisti che perpetrano l’eccidio di 770 contadini inermi nell’autunno 1944 e –se proprio vuoi- ti concede di impietosirti per il tedesco giustiziato dai partigiani con un colpo alla nuca. Perché ti fa vedere pure lui con gli occhi di Martina, nostra indimenticabile bambina-mamma, l’infanzia ammutolita nell’attesa dell’uomo che verrà, l’innocenza che ci conduce per mano attraverso i soprusi dei coetanei, le meraviglie della natura, l’obbrobrio delle umane storture, la nobiltà della devozione religiosa, il perpetuarsi tenace della vita attraverso corpi violati, rastrellati, abbattuti da cui però esalano anime vive, vivissime fino nell’oggi.
Pongo un capoverso alla mia foga di comunicare quel che ho visto domenica: non solo un film. Un quadro impressionista? Un poema classico? Un melodramma lirico?
L’uso del dialetto della montagna appenninica invece che distanziarci rende a noi più familiare la triangolazione dei contadini alle prese con un padrone non ancora sganciato dai fascisti, con i partigiani ammirevoli ma pericolosi, il commerciante infido, l’incomprensibile corpo estraneo dell’esercito tedesco spaventoso e spaventato, le belle figure dei sacerdoti.
Non conosco Giorgio Diritti. Me lo immagino un credente, dunque un uomo capace di guardare il suo popolo con uno sguardo amorevole ma severo. Il contrario del populismo falsario e ruffiano che va per la maggiore oggi. Me lo immagino, Giorgio Diritti, finito anche lui come me, per un pellegrinaggio civile, lì nel rettangolo grigio del cimitero di Casaglia, dove i nazisti fucilarono il primo gruppo di 195 donne, vecchi e bambini, e dove dal 1996 si va a trovare anche il padre costituente don Giuseppe Dossetti che ha chiesto di essere seppellito in mezzo a loro. E’ un luogo fondante la nostra coscienza nazionale, Marzabotto. Così come ora “L’uomo che verrà” diviene pietra miliare della nostra cultura più elevata. Dovrò tornarci, in quel cimitero, sforzandomi di guardarlo con gli occhi di Martina. Voi nel frattempo andate al cinema e sappiatemi dire.

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