Fastweb, Sparkle e i bilanci “abbelliti”

mercoledì, 3 marzo 2010

Nicola Di Girolamo, Gennaro Mokbel, Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Abbellire i bilanci delle aziende è stato considerato a lungo un peccato veniale in Italia. Tanto è vero che il reato di falso in bilancio nel 2001 fu ridimensionato nell’ambito di una delle prime “leggi ad personam”, e pazienza se stavano per esplodere i casi Cirio e Parmalat.
Trattare col botulino i conti dell’impresa che dirigi, esaltandone le “performances”, può sostenere il titolo in Borsa anche nei periodi difficili. A vantaggio degli azionisti ma anche dei manager che ne trarranno “stock options” più laute e aumenti di stipendio proporzionati.
La vicenda imprenditoriale di Fastweb è stata celebrata poche settimane fa con due grandi raduni festosi, a Milano e Roma, in occasione del decennale, cui ha partecipato il fior fiore dell’economia nazionale. L’operazione che fece la fortuna dei soci fondatori, Silvio Scaglia e Francesco Micheli, fu la cablatura del comune di Milano, trattata con l’allora “city manager” Stefano Parisi. Il valore della loro partecipazione schizzò da 35 miliardi a 12 mila miliardi di vecchie lire. Parisi, dopo un passaggio in Confindustria, è diventato guarda caso proprio ad di Fastweb (da cui è uscito invece Micheli).
Nel medesimo “salotto buono” della finanza e dell’editoria nostrana continuano a sedere i protagonisti della gestione Telecom che –nonostante il costosissimo apparato di security dispiegato al proprio servizio- come minimo non si avvidero delle fatturazioni fantasiose, con evasione fiscale conseguente, operate in Telecom Sparkle. Mi riferisco a Marco Tronchetti Provera, uscito vantaggiosamente da Telecom nel 2007 quando i nuovi soci italiani (Mediobanca, Intesa-Sanpaolo e Generali) e spagnoli (Telefonica) rilevarono le sue azioni a 2,7 euro. Roba da leccarsi i baffi viste le condizioni reali di bilancio. E viste le irregolarità gestionali emerse prima con lo spionaggio di Tavaroli & co; poi con i cinque milioni di schede sim risultate fuorilegge; ora con l’immissione artificiale di denaro nella Sparkle gestita e presieduta all’epoca da Stefano Mazzitelli e Riccardo Ruggero.
Stiamo parlando quindi di una componente significativa del capitalismo italiano, non di poche mele marce. La piaga dei bilanci abbelliti col trucco potrebbe infatti rivelarsi molto più estesa di quanto già emerso nell’inchiesta della magistratura romana. La quale ha fatto scalpore puntando i riflettori sugli affaristi che, dopo una complicata triangolazione all’estero, fornivano il denaro fresco a manager così prestigiosi.
Possibile che signori così distinti trafficassero con riciclatori della ‘ndrangheta? Stento a crederlo. Mi pare più realistico ipotizzare una spregiudicata rimozione: non vado certo a indagare la provenienza di soldi che utilizzo per vitaminizzare i bilanci, per fare felici insieme il mercato e il mio portafogli.
Desolante e pittoresco, osserviamo il sottobosco dei commercialisti, intermediari, prestanome con cui veniva architettato il flusso del denaro così ripulito. Lo pseudo-senatore Nicola Di Girolamo, protetto oltre il limite della decenza dalla maggioranza di centrodestra in cui s’era infiltrato. Il fascio-imprenditore romanesco Gennaro Mokbel con la sua collezione d’arte e cimeli. Il geniaccio della lavanderia, Carlo Focarelli. E sullo sfondo i boss di un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta che detiene il monopolio dello spaccio di cocaina in Europa, dunque rigonfia di liquidità in cerca di riciclaggio. Senza falsa ingenuità: pensavamo davvero che in Italia economia legale e economia illegale convivessero senza toccarsi?

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