Se la commedia italiana diventa tragedia

mercoledì, 10 marzo 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
“Alberto Sordi siete voi!”. Con questo slogan è stato pubblicizzato nei giorni scorsi il sito internet ufficiale del defunto attore, l’Albertone nazionale che per più di mezzo secolo ha incarnato la maschera dell’italiano medio, da non prendersi rigorosamente mai sul serio.
Siamo noi, per davvero, Alberto Sordi. Costretti ad ascoltare sulle frequenze di Radio Vaticana, dal responsabile affari giuridici dei vescovi italiani monsignor Domenico Mogavero, le parole banali che è vietato pronunciare nelle tv in cui vige la censura dei programmi scomodi per tutta la durata della campagna elettorale: “Cambiare le regole del gioco mentre il gioco è in corsa è un atto altamente scorretto”, che rivela “un atteggiamento arrogante della maggioranza”.
Proprio così. Nel paese di Alberto Sordi il governo si è confezionato su misura un decreto (interpretativo? Ma fateci ridere…) per rimediare alle furibonde liti interne che hanno lacerato fino all’ultimo minuto il Popolo della Libertà, impedendogli di consegnare entro i tempi stabiliti, e/o con le necessarie firme valide, le sue liste a Roma e a Milano.
Invece di chiedere scusa agli italiani, riconoscendo l’errore compiuto, e ricercare semmai un accordo con le forze d’opposizione per rimediare la negligenza, Berlusconi ha riproposto la sua visione del potere antitetica con la democrazia. L’idea cioè che le regole si possono modificare a proprio vantaggio in nome della maggioranza detenuta, proprio come ha già fatto con le leggi “ad personam” varate per sfuggire ai processi giudiziari. Snaturando i principi liberali del diritto, si pretende che la sostanza debba prevalere sulle forme. Quale sostanza? La pretesa che la volontà popolare sia confiscata per intero nelle mani –si badi bene- non del Parlamento, bensì del governo in carica.
Estendendo tale concezione del potere perfino alla materia elettorale, che in democrazia sarebbe ovvio rispettare come la più neutra dato che il voto serve a modificare le maggioranze, Berlusconi pretende di supplire per decreto alla litigiosità interna della sua classe politica. Il delirio di onnipotenza lo spinge a addebitare sempre e comunque i suoi insuccessi all’avversario: di volta in volta i partiti d’opposizione, la magistratura, la Corte Costituzionale, il Presidente della Repubblica, i giornalisti non addomesticati, le forze economiche concorrenti.
Così il Quirinale si è trovato a dover mediare, in circostanze drammatiche, sotto la minaccia di scatenare la piazza adombrata dagli stessi artefici dei propri guai, tra due esigenze democratiche contrapposte: garantire ai cittadini di poter scegliere chi preferiscono fra gli schieramenti politici principali; e salvaguardare il rispetto delle procedure senza cui viene meno la regolarità della consultazione.
Temo abbia ragione l’ex presidente della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, quando afferma che Napolitano ha dovuto scegliere sotto costrizione rifacendosi all’etica della responsabilità, cioè mettendo al riparo il sistema dal pericolo di una precipitazione nella violenza. Il capo dello Stato ha privilegiato la partecipazione al voto dei principali candidati del centrodestra, pur sapendo che la sua firma sotto quel decreto non è innocua: ratifica una ferita difficilmente sanabile già inferta con arroganza alla nostra democrazia.
Protestare contro dei leader politici che in nome della (presunta) volontà popolare rivendicano la pretesa di ignorare le regole imposte ai cittadini comuni, è il minimo. Per punirli ci resta lo strumento del voto. Nella consapevolezza che, come Alberto Sordi, maschera tragicomica dell’italianità, neanche la nostra democrazia è immortale.

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