Se il premier chiama in piazza i suoi bravi

mercoledì, 17 marzo 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
L’Italia è in preda da tempo a una crisi di nervi che pare raggiungere il suo culmine in prossimità delle elezioni regionali di fine marzo. Non a caso, disinteressandosi alle sfide tra i candidati locali, entrambi gli schieramenti chiamano a raccolta la piazza per denunciare un’emergenza democratica. Evocano l’uno contro l’altro scenari eversivi, pericolo di attentati, tentazioni autoritarie. Dal palco di piazza del Popolo l’opposizione chiama alla resistenza in difesa della Costituzione e della libertà d’informazione calpestate. Il sabato successivo sarà il governo a replicare la prova di forza, sostenendo che l’azione congiunta di giudici, giornalisti e comunisti mascherati miri a calpestare la legittima volontà popolare. E poco importa se ben sei diverse sentenze della magistratura hanno certificato in due settimane l’irregolarità della lista Pdl mai presentata in provincia di Roma: Berlusconi continuerà a richiamarla come prova suprema del complotto ordito ai suoi danni.
Non fingerò di restare neutrale fra le due piazze contrapposte nella medesima accusa di slealtà democratica rivolta all’avversario. Ma credo sia venuto il momento di chiedersi, con preoccupazione, quanto a lungo il sistema potrà reggere ancora gli strattoni. Perché nel frattempo è emerso un quadro di illegalità diffusa, e di degrado morale, tale da farci temere concretamente la liquefazione delle istituzioni.
Esagero? Un premier che invece di governare passa le sue serate a digrignare i denti di fronte alle trasmissioni tv che lo criticano, contribuendo così al loro successo perfino quando ne ottiene la censura. E che insulta i magistrati (“talebani!”), quando non la Corte Costituzionale e il Quirinale, quasi che una democrazia potesse funzionare senza organismi di controllo. Si capisce che vorrebbe una Costituzione diversa da quella vigente, per esercitare la sua idea (aziendalista? monarchica?) del potere esecutivo.
Ma rivelandosi così all’arrembaggio sfrenato delle regole costituzionali, è lui stesso a nominare di fatto capo della sua opposizione un ex magistrato innalzato al ruolo di giustiziere. E più mostra di patirlo, fino all’ossessione, più quello grida alla lotta degli onesti contro i corrotti.
L’antipolitica è la cifra culturale che accomuna questi contendenti, e intanto avvantaggia il leghismo che ne interpreta da un ventennio i comportamenti sociali. Già tracimata nel linguaggio televisivo, nella volgarità esibita, nel ringhio intimidatorio, l’antipolitica chiama gli italiani a rassegnarsi, come ha scritto Jacqueline Risset su “Le Monde”: il destino storico della nazione è sottomettersi a un potere esercitato come “fazione e oligarchia”. Peggio per chi non dispone dei protettori giusti.
Capisco perfino la tentazione di chi vorrebbe abolire le intercettazioni telefoniche per non dover sapere il grado di corruzione e spregiudicatezza della classe dirigente. Quasi che l’ignoranza della malattia potesse preservarci dai sintomi che si riverberano ormai nella nostra esperienza quotidiana. Credo che siamo in molti a sentire che la saldezza delle istituzioni democratiche sta venendo meno. Né ci rassicura chi si propone di sostituirle con il suo carisma, rapidamente passato dal sorriso all’ira.

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