Don Ciotti e quelle migliaia di ragazzi

mercoledì, 24 marzo 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Tra i vari cortei che hanno intasato le strade nei week end precedenti le elezioni, tutti enfatizzati quintuplicando come minimo il numero dei partecipanti, ho scelto di partecipare alla “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie” convocata a Milano da don Luigi Ciotti. Lo avrete senz’altro sentito nominare. E’ un sacerdote torinese che fin dall’inizio del suo apostolato tra gli sbandati, intorno alle cui esperienze ha fondato il Gruppo Abele, s’è messo in cerca del nesso tra carità e giustizia. Non gli bastava accudire i drogati. Voleva scoprire chi e perché li drogava. Così, risalendo i passaggi dell’iniquità, si è ritrovato sempre più spesso nel Mezzogiorno d’Italia, cioè nelle regioni in cui mafia, camorra e ‘ndrangheta organizzano il traffico, la raffinazione e lo spaccio su cui hanno costruito un impressionante dominio oppressivo. Il risultato è stato la nascita di Libera, associazione finalizzata a diffondere la cultura della legalità, e a impiegare a fini sociali le proprietà confiscate ai mafiosi.
Ammetto di non avere capito subito la scelta di Luigi Ciotti. Mi parve un’infatuazione, temevo si distraesse dalle attività di cura delle persone in difficoltà nelle quali il Gruppo Abele ha ancora molto da insegnare. Lo vedevo legarsi sempre più a magistrati, poliziotti, carabinieri. Poi ho intuito che si prendeva in carico ex mafiosi desiderosi di rifarsi una vita. Concentrava la sua attenzione sulle sofferenze di chi ha perduto un familiare a causa della violenza criminale: non importa se un giudice, un agente, un semplice cittadino restio a subire ricatti, un ragazzo che aveva sgarrato, o magari un passante ignaro coinvolto in una sparatoria. Migliaia di vittime, protagoniste di un dramma rimosso nel paese in cui spesso sono i potenti ad atteggiarsi a vittime.
Il corteo milanese che da Porta Venezia raggiungeva il Duomo, per scandirvi come ogni primo giorno di primavera da quindici anni i nomi dei caduti in questa strage ininterrotta, è stato per me rivelatore. In testa c’erano i parenti, circa cinquecento persone di cui solo alcune famose. E’ venuta a stringermi la mano, facendomi correre brividi d’emozione lungo la schiena, la sorella del caposcorta di Giovanni Falcone, Antonio Montinaro. Ma quello che non mi aspettavo era il seguito.
Dietro ai familiari, una marea di giovanissimi come non mi capitava da decenni di vederne in piazza. Poco più che adolescenti, boy scouts, studenti di scuole medie di città e paesi di provincia. Più minorenni che maggiorenni, con le loro musiche e i loro striscioni colorati di sfida ai criminali che a casa loro spesso si presentano come unica autorità costituita.
Un movimento che non ha bisogno di stare sulle prime pagine dei giornali per esistere, ma che impressiona per il suo nitore: su una causa precisa, netta, concreta si mobilita con entusiasmo la fascia d’età per cui democrazia non è sinonimo di politica, e la politica mantiene un significato più ampio di mera lotta per il potere.
Mi sono fatto questa idea: la mobilitazione antimafia di quella moltitudine di giovani era sorretta dall’impegno culturale dei loro insegnanti, disseminati nel corteo. E dalla vicinanza con poliziotti e carabinieri in grado di testimoniare il sacrificio necessario per ribellarsi al potere criminale. Non è retorico constatare che quegli insegnanti, poliziotti, carabinieri sono un pezzo di Stato che trasmette valori democratici. Che tra di loro si contano numerose vittime, cadute a causa del loro impegno. E che i ragazzi riuniti da don Ciotti in questo grande appuntamento di primavera mostrano di averlo capito prima e più di noi.

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