Arrivare prima del Signore Iddio

martedì, 20 aprile 2010

Vi propongo la mia introduzione a un bellissimo libro-conversazione con Marek Edelman scritto da Hanna Krall, “Arrivare prima del Signore Iddio”, edito da Giuntina (pagg.136, euro 12).
Ebbi la fortuna di leggere questo libro straordinario in una traduzione dal francese pubblicata, nel 1996, dalla casa editrice Città Nuova, e ne rimasi folgorato. Volevo conoscere Marek Edelman, volevo farlo conoscere ai miei figli, e al tempo stesso ero intimidito dalla sua figura di antieroe ruvido e scontroso, restio a lasciarsi celebrare, così come me la trasmettevano i suoi amici Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri.
Considero dunque un onore immeritato che tocchi a me raccomandare la lettura di questa traduzione, finalmente dall’originale polacco, dell’opera di Hanna Krall, scrittrice dotata di rara sensibilità e forza narrativa.
“Arrivare prima del Signore Iddio” non è solo il resoconto più vivo della rivolta del ghetto di Varsavia, scaturito dalla testimonianza del vicecomandante dell’Organizzazione ebraica di combattimento (ZOB) scampato miracolosamente alla morte. E’ molto di più. La Krall si scontra pagina dopo pagina con la reticenza di Edelman, il testimone. Egli teme che il suo ricordo venga snaturato, ridotto a leggenda inautentica. Ricordare per lui significa anche smitizzare, sottrarsi all’agiografia. Solo così riesce a dare un senso ai decenni successivi in cui esercitò la professione di medico cardiologo all’ospedale di Lodz: collocato di nuovo molteplici volte su quell’esile confine tra la vita e la morte che aveva visto oltrepassare da centinaia di migliaia di persone sull’Umschlagplatz mentre salivano sui vagoni stracolmi diretti a Treblinka, con l’ultima pagnotta messa loro tra le mani dai nazisti allo scopo di garantirsi un flusso di smaltimento ordinato.
Li ho visti morire tutti quanti, ripete Edelman. Poi all’improvviso si rivolta contro la Krall: cosa mi domandi? Potrei dirti dieci volte di più sui miei malati. Ci tiene a precisare che lui è rimasto al cancello dell’Umschlagplatz tutta la vita. Sì, anche dopo. Anche in ospedale: “Stavo al cancello e tiravo fuori degli individui da una folla di condannati”.
Il libro è permeato di un sarcasmo polacco che è l’esatto contrario del cinismo. Grazie ad esso apprendiamo che Marek Edelman è certamente un temerario –la sua singolare caratteristica è di apparire un uomo del tutto esente dalla paura- ma non è un soldato. Lo si capisce subito, quando gli insorti s’imbattono il 19 aprile 1943 nel primo manipolo di tedeschi ignari del fatto che ci fossero degli ebrei armati. Potevano sparargli, a dire il vero andavano ammazzati: “Avremmo dovuto, ma non eravamo ancora abituati a uccidere”. Che senso poteva avere, del resto, usare le poche e malandate armi pervenute nel ghetto dalla parte ariana della città? “Gli uomini hanno sempre creduto che sparare è il massimo dell’eroismo. Allora abbiamo sparato”. E ancora: “Visto che l’umanità si è accordata che morire con le armi in pugno è più bello che senza, allora ci siamo sottomessi a questa convenzione”.
Purché sia chiaro, si preoccupa di ricordarci Edelman attraverso innumerevoli esempi, che il coraggio non fu certo una virtù esclusiva dei combattenti. La funzione di questi ultimi era limitata: bisognava morire pubblicamente, sotto gli occhi del mondo.
Non stupisce quindi la diminuzione sistematica con cui contraddice l’epopea raccontata da chi non c’era: cinquecento i membri attivi del ZOB? Macché, eravamo molti meno. Mordechaj Anielewitcz, il suo comandante, figura immacolata? Certo, ma che male c’è a ricordare che era figlio di una pescivendola e che al mercato non esitava a tingere con vernice rossa le branchie delle carpe per farle sembrare più fresche? Anche il cielo si è tinto di rosso nell’incendio del ghetto di Varsavia, cosa volete che sia un po’ di vernice scarlatta. Per sé e i suoi compagni, il nostro testimone rivendica che gli concediamo se non altro il beneficio della normalità.
Detesta la retorica dei superuomini. Ma nello stesso tempo detesta gli uomini che delegano a Dio le responsabilità che spetta loro assumere. E’ questo l’unico frangente in cui il dottor Edelman, chiamato a prendere decisioni temerarie di fronte a casi clinici disperati, ama esibire superbia. Lui, il Signore, non è tanto giusto. Talvolta è piacevole raggirarlo, approfittare di un Suo momento di distrazione e proteggere la fiamma che Iddio era già lì pronto a spegnere. Una bestemmia? Certo che no: i rivoltosi del ghetto di Varsavia sono interpreti dell’autonomia dell’umano senza cui neppure la Legge sarebbe in grado di fondare una morale di civiltà.
Tentare sempre di sopravvivere con dignità: pur di trasmetterci questo insegnamento Edelman non esita a criticare la scelta del suicidio messa in atto nel bunker di via Mila 18 dal comandante Anielewitcz insieme agli ultimi resistenti. Del resto avevano dissentito insieme, il 23 luglio 1942, quando a togliersi la vita era stato il presidente del Consiglio ebraico, Adam Czerniakov, non appena aveva appreso che i tedeschi avevano deciso la liquidazione del ghetto. Riconoscevano la rettitudine di Czerniakov, ma gli imputavano di non avere indicato per primo la via obbligata dell’insurrezione.
Ciò naturalmente non gli ha impedito, nel dopoguerra, fino all’ultima celebrazione dell’anniversario della rivolta cui ha partecipato nell’aprile 2009, di sostare in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda Szmul Zygielbojm, il rappresentante del Bund nel governo polacco in esilio che il 12 maggio 1943 si suicidò a Londra per protesta contro l’indifferenza dei governi alleati. Il cerimoniale da lui predisposto contemplava che a quel punto dell’itinerario, prima di proseguire verso l’Umschlagplatz e il bunker di via Mila 18, un coro di ragazzi intonasse piano l’inno del Bund, il “suo” partito operaio ebraico contrario al progetto di emigrazione sionista in Palestina.
Marek Edelman rimarrà fino all’ultimo dei suoi giorni, il 2 ottobre 2009, quando si spense serenamente a Varsavia nella casa dell’amica Paula Sawicka, un militante del Bund. Ovvero della nobile idea democratica secondo cui un ebreo deve poter vivere libero e alla pari con i suoi concittadini là dove nasce. Se poi volesse andare a vivere in Israele per sua libera scelta –aggiungiamo noi- lo faccia. Ma non più, mai più, come via di fuga.
Come è noto questo ideale di Edelman gli procurò l’inimicizia dei sionisti e il sospetto dello Stato d’Israele. Ma per fortuna non ha potuto impedire che la sua fotografia venisse collocata quando era ancora vivo nella galleria degli eroi della rivolta del ghetto allo Yad Vashem di Gerusalemme. Il principio dell’uguaglianza e della cittadinanza ebraica in qualsiasi paese della terra è un’eredità che il Bund consegna attraverso di lui alle generazioni successive.
L’immagine che forse più lo ferisce, fra le tante umiliazioni inflitte agli ebrei sottomessi, è quella di un piccolo vecchio ingobbito, issato a forza su una botte e schernito dai suoi aguzzini che ciocca dopo ciocca gli tagliavano la barba, mentre intorno la folla rideva.
“Ho capito allora che la cosa più importante era di non lasciarsi più mettere sulla botte. Mai, da nessuno. Lo capisci?
Tutto quello che ho fatto in seguito, l’ho fatto per non lasciarmici mettere”.
Di quella scena l’aveva colpito anche il contrasto fra i due soldati, uomini alti e belli, e quell’ebreo d’aspetto miserabile. Lui stesso, mingherlino, col suo naso curvo e la carnagione scura, rivendica conversando con Hanna Krall l’orgoglio dei suoi tratti semiti. Dei combattenti del ghetto può dire, sì, “giovani sani, risoluti”, ma ne sottolinea compiaciuto l’antiesteticità ebraica. Eravamo brutti, e allora? Ironizza sui magnifici, confortevoli combattimenti cui prese parte in seguito con i partigiani polacchi, culminati nell’insurrezione di Varsavia dell’agosto 1944. Ma nessuno lo convincerà mai che meritino considerazione maggiore degli uomini e delle donne ammazzati come topi sul fondo di una cantina.
Una volta ho partecipato anch’io, con tutta la mia famiglia, sotto una pioggia torrenziale e dietro la sedia a rotelle su cui incedeva Marek Edelman, alla cerimonia di commemorazione che egli teneva si svolgesse ogni anno, il 19 aprile, in forma separata dalla cerimonia ufficiale, rimasta fino al 1990 sottoposta alla supervisione del regime comunista. Quello stesso regime che nel dopoguerra aveva disposto lo scioglimento del Bund; che nel 1968 lo allontanò dal suo ospedale di Lodz coinvolgendolo nella purga antisemita mascherata come “antisionista”; e che nel 1991 si macchiò del disonore di arrestarlo in quanto sostenitore del sindacato libero Solidarnosc.
La testimonianza morale di Marek Edelman accompagnò la nascita e l’affermazione del movimento democratico anticomunista in Polonia. E fino all’ultimo la sua voce si levò con fermezza contro i rigurgiti di un antisemitismo di matrice nazionalista e cattolica, paradossale perché scatenato in un paese che aveva vissuto lo sterminio di quasi tutti i suoi ebrei: tre milioni e mezzo di persone.
L’ultima tappa del tragitto da lui predisposto con cura era sempre al bunker di via Mila 18. Qui si soffermava a lungo e in silenzio, quasi volesse entrare in dialogo con quel “ragazzo”: così definiva Mordechaj Anielewicz, che “ci teneva tanto” e così lo avevano accontentato, nominandolo loro comandante. Non mancava di ricordare che Anielewitcz era di un anno più giovane di lui. Già, nel 1943 Edelman con i suoi ventidue anni era il più “vecchio” tra le guide del ZOB. In cinque avevano centodieci anni.
Pochi altri libri come questo ci trasmettono il senso della parola “comunità”.
“All’epoca, la gente andava l’uno verso l’altro come mai prima, in una vita normale”, confida a Hanna Krall. E le racconta le storie incredibili di chi, già trovato rifugio nella parte ariana della città, decideva di fare ritorno nel ghetto pur sapendo che ciò significava trovarvi morte certa. Non a caso, ormai novantenne, con l’aiuto di Paula Savicka, fu proprio questo particolare senso di comunità e di intimità, profonda e carnale, l’ultima testimonianza che gli premeva consegnarci, attraverso il libro “E c’era l’amore nel ghetto”, tradotto in italiano dall’editore Sellerio.
Quel luogo infernale era l’unico in cui un ebreo potesse allora ritrovarsi tra simili, instaurare relazioni sentimentali e d’amicizia. Edelman torna giovane e si compiace di raccontarcene le vicende trasgressive, esasperate dalla violenza circostante: l’agio di esprimere la propria fisicità. Un modus vivendi cui non rinuncerà più.
Nel maggio del 2008, quando andai a intervistarlo nel modesto villino di Lodz insieme al mio primogenito Giuseppe, lo trovai alle undici del mattino seduto in cucina che fumava sorseggiando vodka. Gli avevo portato in dono del vino piemontese che disdegnò come bevanda per signorine. Per fortuna in aeroporto avevo comprato pure una bottiglia di whisky che lo rimise di buonumore e subito stappò, proponendoci un brindisi. Accendeva una nuova sigaretta senza filtro con il mozzicone della precedente. Niente male per un medico cardiologo affezionato alla vita (degli altri)! Da poco aveva subito gli attacchi di “Radio Maria”, emittente del cattolicesimo polacco più reazionario, dopo che ne aveva denunciato la propaganda antieuropea e antisemita. Gli chiesi il perché dell’ostinazione con cui era rimasto a fare il guardiano delle tombe del suo popolo. “Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia”. Puntava uno sguardo di fuoco sull’obbiettivo della telecamera. Poi mi congedò piuttosto bruscamente.
Stiamo parlando dell’uomo che nel 1993, esattamente cinquant’anni dopo la rivolta del ghetto di Varsavia, ormai anziano, accompagnò un convoglio umanitario dentro a Sarajevo assediata e bombardata. Questo libro era stato già pubblicato in Polonia, nazione mutilata da cui Marek Edelman si assentava malvolentieri. Basterà leggerlo per capire perché in quel frangente decise di fare un’eccezione.

Gad Lerner

P.S. Dedico questo testo alla memoria di Wolf e Yaachov Lerner, fratelli di mio nonno Elias. Le schede compilate su di loro a Yad Vashem indicano genericamente: morti nel ghetto di Varsavia. Di uno di loro, non so quale dei due, conservo delle fotografie scattate durante un viaggio in Palestina.

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