La finanza è un predatore o una risorsa?

mercoledì, 12 maggio 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Ci viviamo in mezzo da due anni, a questa crisi che rimbalza fra i bilanci delle banche private illiquide e i bilanci degli Stati costretti a salvarle. Ce la prendiamo con quei cattivoni degli speculatori e delle agenzie di rating, fingendo di ignorare che si tratta di noi stessi: conoscete qualcuno che non prova a evitare il dissolvimento dei suoi risparmi quando l’economia va male?
Al dunque, nel momento delle frasi storiche –“Qui si fa l’Europa o si muore”- non ci è bastato avere una moneta in comune. Gli inglesi nel pieno di una turbolenza politica hanno ricordato che loro hanno la sterlina, e gli dà pensieri abbastanza. Il governo tedesco, reduce dalla sconfitta elettorale, ha rifiutato qualsiasi ulteriore cessione di sovranità sulle politiche di bilancio a Bruxelles, sospettando che i conti dei paesi “latini” dell’Ue non siano molto migliori di quelli greci.
Dubito che l’annuncio roboante –siamo disposti a proteggerci fino a 750 miliardi di euro, con l’aiuto del Fondo monetario internazionale, ma decidendo ciascun governo per sé- freni la scommessa dei mercati sulla fine dell’euro così come l’abbiamo conosciuto nei suoi primi otto anni di vita. Conterà di più nei salvataggi l’impegno diretto dell’unica istituzione che l’Europa unita è riuscita finora a darsi: la Banca Centrale con sede a Francoforte. Ma se anche riusciremo a dilazionare la bancarotta della Grecia e il contagio in Portogallo e Spagna, e facciamo finta di non sapere chi verrebbe subito dopo, ugualmente verranno al pettine i nodi di un sistema sbagliato: questa finanza ci soffoca, ci depreda. Lo dico e mi vergogno perché so benissimo che senza finanza sarebbe impensabile fare industria, creare ricchezza. Ma resta vero lo stesso che anche nei bilanci delle aziende manifatturiere la quota di utili proveniente dai servizi finanziari ormai è maggiore della quota proveniente dalla produzione. La finanza tiene in ostaggio l’industria, pur essendo nata per servirla. E gli antiquati studiosi di scuola marxista, che non lo avevano previsto, sono i primi ad accorgersi della spiacevole conseguenza sociale di tale predominio: per fare profitti nel mondo d’oggi si svuotano le tasche dei risparmiatori, essendo già fin troppo prosciugati i salari dei lavoratori.
Mi ha fatto impressione vedere com’è bastata una settimana di crolli in Borsa per mettere l’Europa in mutande, le facce costernate dei suoi leader riuniti per due week end di fila in cerca di soluzione, col presidente americano che gli telefonava: “Sbrigatevi!”. Nessuno si scandalizza più per gli interventi di Stato sull’economia, considerati illegittimi fino al 2008, anno d’inizio della grande crisi. Anzi, la retorica dell’emergenza delinea uno scenario in cui la politica dovrebbe mettere da parte i tecnici per affrontare petto in fuori il drago delle banche multinazionali. Demagogia, roba da Anni Trenta del Novecento. Mentre gli economisti più popolari del momento sono quelli che ci invitano a prendere atto dei fallimenti: lasciate che la Grecia dichiari bancarotta; lasciate che l’euro si scinda fra il “neuro” dei paesi virtuosi e il “seuro” dei più poveri, una spaccatura che taglierebbe in due l’Italia.
Qui si fa l’Europa o si muore? Temo che i nostri leader siano ancora in cerca di un’introvabile terza via.

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