Mourinho, olè!

mercoledì, 19 maggio 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
In copertina giustamente ci è andato il nuovo italiano, Mario Balotelli, il campione controverso e post-moderno che il conformismo di Lippi non può contemplare ai mondiali. E chi se ne importa visto che il calcio ha fatto in tempo a maledirlo e a perdonarlo, tanto da farlo partecipare da protagonista -a diciannove anni- all’incredibile mese di maggio nerazzurro 2010: il 5 maggio per sconfiggere la Roma nella sua “tana” in Coppa Italia; il 16 maggio per riprendersi di un soffio a Siena quel che era naturalmente già suo, il diciottesimo titolo di squadra più forte della penisola; il 22 maggio a Madrid…non diciamo niente.
Se al nuovo italiano Balotelli spetta la parte del figliol prodigo, sotto lo sguardo vigile di un vecchio italiano, Materazzi, incredulo di essere diventato saggio, l’epopea nerazzurra di questo maggio tracima inevitabilmente nella sovranazionalità, mescola le patrie, amalgama storie di vita senza bandiera.
L’uomo che concepì l’impresa, l’anti-italiano Josè Mourinho, non a caso, conserva il portamento scettico del capitano di ventura. Oggi qui, domani là. Distaccato vuole apparire, Mourinho, perfino quando le fessure degli occhi s’inumidiscono per la gioia irradiata attorno a sé. Carogna al punto giusto, quanto deve sembrarlo un capo autorevole di ragazzi troppo pieni di energia. Capisco la tentazione di andarsene: l’allenatore che inventa una simile triplete (l’ho scritto, aiuto, saltate questa parola per favore) faticherà dopo a rientrare nel tran tran di un’appartenenza. Lui per primo sa che il calcio è piacere allo stato puro per chi ha la fortuna di seguirlo da fuori del business; mentre a lui, l’allenatore, spetta il lavoro sporco del back-stage là dove si accordano i nervi dei giocatori che scenderanno in campo guardando in apprensione il leader, in piedi davanti alla sua panchina.
Balotelli è due anni che soffre questa dipendenza, non ci si rassegna. Io nella galleria di questa équipe da matti adoro mettere in fila gli stralunati che invece si sono fidati di Mourinho pur continuando a vivere l’estro dell’irregolarità. Avete presente Maicon quando scende travolgente sulla fascia con quello sguardo ebbro (“quanta birra hai bevuto prima della patita, Douglas?”, mi viene da urlargli ogni volta) e poi s’inventa un colpo geniale che magari finisce storto in tribuna, e allora giù una risata delle sue. Scambiata magari con il pelato Cambiasso, che tanto è dappertutto. Finché il fascio di muscoli del capitano, Javier Zanetti, automa signorile che resta impeccabilmente pettinato all’antica, per un attimo interrompe la sua corsa e li riporta all’ordine. Lo so che devo citare motorino Schneijder dal cui piede all’improvviso partono sventole imprendibili e taglienti passaggi in profondità; o il sorriso stanco di Eto’o chiamato a recuperare palla indietro come un mediano qualsiasi; di modo che l’azione si ribalti alla velocità del fulmine, tac, tac e Milito è già lì solo davanti al portiere avversario mentre i suoi compagni invano sbattevano sul muro di Lucio e di Samuel, colossali.
Le regole della cortesia di obbligano ad ammettere che (per voi, non per me) il campionato è stato reso più bello dalla grande rimonta della Roma, inferiore per uomini e mezzi ma ciò non di meno insidiosissima. L’ho ammesso. Purché si riconosca che alla fine ha vinto davvero la migliore. Talmente migliore da riportarmi all’infanzia, quando l’allenatore straniero iniziava con due H e già indicava alla formazione nerazzurra di Milano un destino internazionale. Ah, dimenticavo. Per chi non se ne fosse accorto questo articolo è appunto dedicato all’Internazionale Football Club di Milano, vincitore per la diciottesima volta del campionato di calcio italiano, serie A.

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