Gli operai di Pomigliano e gli allevatori del Nord

mercoledì, 23 giugno 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
La vicenda italiana di gran lunga più importante della settimana è quella che riguarda gli operai metalmeccanici di Pomigliano, richiamati dall’alto –con un coro che non prevede voci di dissenso- a rendersi competitivi con i loro colleghi polacchi, se vogliono conservare il posto di lavoro.
I mass media esaltano la generosità dei vertici Fiat, ancora disposti a investire centinaia di milioni di euro nell’area campana nonostante i comportamenti deplorevoli delle maestranze, additate come una massa di lavativi cui viene offerta l’ultima occasione. La propaganda applicata alle vertenze di lavoro è un trucco vecchio come l’ideologia della lotta di classe. Copre imposizioni brutali e anticipa tempi grami per chi vive del lavoro manuale a basso reddito. Ci torneremo. Ma intanto la vertenza di Pomigliano, in cui l’Italia tutta quanta pare contrapporsi unita contro la resistenza di un solo sindacato, la Fiom, può aiutarci a capire come funziona l’astrusità del federalismo. Cosa c’entra? Seguitemi e capirete.
Se al posto dei fabbricatori d’automobili campani fossero stati degli allevatori di mucche lombardi i protagonisti di questo braccio di ferro con una multinazionale, state pur certi che i giornali sarebbero pieni di retorica sull’identità violata di quel dato territorio, sulle imposizioni dall’esterno da respingere, sulla globalizzazione ostile e sulla nobile resistenza del governo regionale di fronte al sopruso. Una fabbrica meridionale minacciata di chiusura –a torto o a ragione- perché non si adegua agli standard produttivi vigenti in un analogo stabilimento polacco, non si merita analoghe attenzioni. Perché? Ma è ovvio: perché il federalismo italiano nasce da un atto d’accusa nei confronti del meridione e da una promessa: premiare il Nord e punire il Sud. Peraltro sarebbe questa l’unica remota possibilità di conseguire il “federalismo a costo zero” sbandierato dal governo. Anzi, nella propaganda si sostiene addirittura che il decentramento dei poteri statali arrecherebbe un risparmio per la collettività, lungi dal costarci i 130 miliardi di euro calcolati da ricercatori indipendenti. Fingiamo di crederci. Ma sulle spalle di chi li risparmieremmo tutti questi miliardi? Guarda caso l’unica regione del Sud che simpatizza col progetto federalista è la Sicilia, che grazie al suo Statuto d’autonomia usufruisce di enormi finanziamenti statali.
Altro che federalismo. Il prolungamento della crisi economica mondiale impone ai governi e alle aziende scelte drastiche di carattere centralista. Perfino l’Unione Europea, dopo gli Stati Uniti, è costretta a praticare il dirigismo economico. Lo sanno benissimo anche i leghisti italiani, e difatti si sono innervositi. Vedono un Berlusconi in difficoltà tentato dall’ennesima sfida elettorale e temono di esservi trascinati prima di avere incassato i decreti attuativi del federalismo fiscale. Che peraltro non diminuisce l’onere delle tasse da pagare. E allora sotto la pioggia, al raduno di Pontida,cercano di inventarsi un diversivo: via i ministeri da Roma, sparpagliamoli per la penisola. Un’idea che da sola costerebbe chissà quanti miliardi!
Chi saggiamente ha preferito non farsi vedere, a Pontida, è lo strano manager-politico nominato due giorni prima ministro del federalismo: Aldo Brancher. Lui è il goffo testimonial dello stallo politico in cui si trova un governo che già annoverava tre ministri dedicati al federalismo impossibile (Bossi, Calderoni, Fitto). I leghisti ne patiscono la figura ambigua e già lo prendono a calci negli stinchi. Nessuno capisce a cosa serva davvero. L’unica cosa certa è che il federalismo non riguarda gli operai di Pomigliano, trattandosi di una controversia di potere.

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