Una risposta, a proposito di denaro

mercoledì, 30 giugno 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Sono un uomo ricco? Ebbene sì, lo sono. Diciamo grosso modo duemila volte meno ricco di Berlusconi, mille volte meno ricco degli eredi di Agnelli, cinquecento volte meno ricco di De Benedetti, dieci volte meno ricco di un manager come Marchionne, ma ugualmente non posso lamentarmi: con alti e bassi godo da una quindicina d’anni di un reddito elevato. Dopo una gioventù indigente posso permettermi un tenore di vita da benestante, perché guadagno più o meno come un medio imprenditore, o se preferite un avvocato, un notaio, un dentista di successo. Da libero professionista, non dispongo di una rendita garantita: La7 mi ha appena rinnovato un contratto di collaborazione biennale –avrà fatto i suoi calcoli di convenienza- ma non è detto che nel 2012 qualcuno mi vorrà ancora far lavorare in televisione. Peraltro dubito anch’io di voler fare un programma in tv oltre i sessant’anni d’età che si avvicinano minacciosamente. Prevedo che a quel punto la mia dichiarazione dei redditi calerà di parecchio, dopo avere oscillato intorno ai 700 mila euro lordi annui. Come quella di Michele Santoro. O se preferite, il doppio di quel che guadagna ora a La7 il mio amico Enrico Mentana (che però a Mediaset mi surclassava negli introiti). Sempre e comunque un quarto di quel che la Rai paga a Bruno Vespa.
Suppongo di avervi irritati già abbastanza con questa esibizione che mi viene però necessaria per denunciare un vizio nazionale: qui in Italia parlare di soldi è tabù. Considerato volgare, pericoloso, comunque inopportuno. Col risultato che non si riflette mai sulla forma assunta dalla nostra piramide sociale.
Mi è successo l’altra settimana su “La Repubblica” di ragionare su questo tema delle disuguaglianze sociali che gli studiosi descrivono in forte crescita dappertutto, per via della crisi economica, ma che denotano essere particolarmente acute proprio in Italia. Più precisamente: non vi è mai stato nella storia dell’umanità un divario così abissale fra chi sta ai vertici e chi alla base della piramide sociale. Né tanto meno –all’interno di un’azienda- una forbice così allargata fra la retribuzione di chi la guida e la busta paga dei suoi dipendenti.
Per questo mi sono permesso di pubblicare due nude cifre. Nel 2009, annata dura di crisi e cassa integrazione, il nostro primo ministro Silvio Berlusconi ha guadagnato, di soli dividendi Fininvest 126,4 milioni; un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco negli stessi dodici mesi ha guadagnato 11 mila euro lordi. Quindi Berlusconi ha percepito un reddito pari a 11.490 volte quello di un operaio di Pomigliano. Lo stesso calcolo applicato a Sergio Marchionne, cioè all’amministratore delegato che ha aperto una vertenza per riformare il contratto di lavoro a Pomigliano, rivela che il manager guadagna 435 volte un suo dipendente. Fino agli anni Ottanta un dirigente al top arrivava solo di rado a guadagnare 50 volte i suoi dipendenti. Siamo sicuri che questa tendenza a stressare le distanze di reddito non finisca per lacerare in modo irrimediabile la nostra società? Con tutta la devozione possibile per il talento di Berlusconi e Marchionne, riesce difficile considerare proporzionato ai meriti il multiplo che li separa dalla media. Se ne può discutere? O bisogna solo mugugnare sui redditi eccessivi di chi ci sta antipatico? Con prevedibilità imbarazzante, “Il Giornale” e “Libero” mi hanno risposto imprecando all’unisono: “Lerner critica i superstipendi. Ma non il suo”; “L’operaista Lerner prende come 72 tute blu”.
Avete presente lo stolto, il dito e la luna? Ora che vi siete tolti il gusto, andate a leggere il libro di Maurizio Franzini, “Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili”. Lo pubblica l’Università Bocconi. Anche lei troppo di sinistra?

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