Un saluto agli sconfitti di Germania

giovedì, 8 luglio 2010

Questo articolo, pubblicato da “Vanity Fair”, era stato scritto prima della sconfitta (meritata) che i tedeschi hanno subito ieri dalla Spagna. Ma la tesi secondo me resta valida…
E’ più forte di me. Tutte le volte che sento intonare “Deutschland, Deutschland uber alles, uber alles in der Welt”, mi corre un brivido di diffidenza lungo la schiena. L’inno nazionale di Germania mi fa paura, evoca ricordi sinistri. Ma poi la telecamera comincia a scorrere sui volti dei calciatori, giovanissimi (l’età media più bassa fra le semifinaliste del Mondiale), così diversi tra loro, quanto di più lontano si possa concepire dal mito tedesco della razza che ha funestato il secolo scorso in Europa.
Ebbene sì, faccio fatica, ma comincio a innamorarmi della squadra di Joachim Loew, da lui plasmata in collaborazione col predecessore Jurgen Klinsmann, grande interista d’antan. Mi dilanierò quando dovesse giocare, com’è probabile, una sfida decisiva contro l’Olanda del nostro super Wesley Sneijder. Ma gli esperti di football più stagionati non sostengono forse che la nuova Germania rivelazione dei Mondiali 2010, meticcia e cosmopolita, pratica un calcio totale paragonabile a quello degli arancione di Cruyff?
Non accamperò oltre competenze tecniche di cui sono privo, ma invece la suggestione di questa bellissima Germania bastarda voglio condividerla con voi. Lo so che le considerazioni sociocalcistiche vanno prese con le pinze, soggette come sono a smentite clamorose, proprio come la geopolitica del pallone (tanto più se schizza come lo Jabulani). Ma provate a mettervi nei miei panni di ex apolide con nazionalità multistrato, tifoso di una squadra-babele di nome Internazionale.
Dunque, i campionati si tengono in Sud Africa, cioè nell’ultima grande nazione in cui è rimasto in vigore l’apartheid, la discriminazione razziale, fino a sedici ani fa. Bella scelta. Non a caso prima di ogni match si promuove la cultura della convivenza, con tanto di striscione “no al razzismo” che non è mai di troppo. In tribuna siede un tale Jacub Zuma, che oggi di mestiere fa il presidente della repubblica sudafricana, ma che quando trascorse dieci anni detenuto nell’isola-prigione di Robben Island vi fondò insieme agli altri prigionieri politici la Makana Football Association. Zuma capitanava una delle squadre di pallone che aiutarono i detenuti a organizzarsi e solidarizzare. Dicono fosse un interno destro piuttosto duro negli interventi.
Le cose non vanno bene in Sud Africa, nonostante Nelson Mandela abbia fatto il miracolo di evitare un bagno di sangue, nel passaggio dal potere bianco al potere nero. Ecco, si fa ancora fatica a prescindere dal colore della pelle. Un potente razzismo è esploso fra i giovani dell’African National Congress, guidati dal motto: “Non esistono africani bianchi”. (Segnatevelo, non lo trovate familiare?) E poi ci sono naturalmente i bianchi che rimpiangono l’apartheid.
Ebbene, cosa ti succede in questo Sud Africa tuttora alle prese col problema della razza? Che ti arriva giù questa squadra direttamente dalla Germania, la patria del razzismo più criminale che sia mai esistito, e si presenta in campo… Ozil, Boateng, Khedira… Un formidabile miscuglio di etnie: su 23 membri della spedizione, 11 sono di cittadinanza tedesca acquisita. Rifilano quattro pappine all’Inghilterra e quattro pappine all’Argentina (ridimensionando il mito populista di Maradona). Lo so che c’è il precedente della Francia multicolore che vinse i Mondiali nel 1998, e che invecchiando pure i ragazzi di Loew potranno trasformarsi in brocchi. Ma ammetterete che è una bella nemesi storica questa sconfessione in diretta mondiale dal Sud Africa del mito della superiorità della razza ariana.
A proposito. Quel “non esistono africani bianchi” mi ricorda maledettamente gli sprovveduti che inseguivano Mario Balotelli col grido “non ci sono negri italiani”. Supermario in Nazionale!

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