Operai, la salvezza arriva dalla Cina

mercoledì, 28 luglio 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
In chi possono riporre le loro speranze,gli operai italiani della Fiat, alle prese con una multinazionale che per sua vocazione disloca gli stabilimenti là dove più le conviene? Non saranno certo i politici nostrani, piccoli piccoli di fronte all’enormità del problema, a modificare le strategie aziendali di Sergio Marchionne.
Gli unici su cui gli operai italiani della Fiat possano fare per davvero affidamento, sono gli operai cinesi. Laggiù in Oriente cominciano a non poterne più delle paghe da fame che hanno attirato in casa loro i capitalisti di tutto il mondo. E perfino il regime autoritario di Pechino che sacralizza la disciplina del lavoro nel nome di Confucio ha dovuto sopportare l’esplosione delle rivendicazioni salariali, dopo che i mass media cinesi avevano raccontato numerosi casi di suicidi per protesta sul posto di lavoro.
Vi sembrerà che la prendo alla lontana, ma la storia ci insegna che funziona così: i salariati migliorano le loro condizioni attraverso il conflitto sociale, che spinge gli azionisti dell’impresa a rinunciare in loro favore a una quota di profitto e lo Stato a investire nella protezione sociale tramite i proventi di una fiscalità progressiva. A parlarne nell’Italia di oggi sembra di fare della fantascienza, lo so, ma se permettete la lotta di classe degli operai in Cina è una notizia di rilevanza mondiale che eserciterà le sue ripercussioni anche in casa nostra.
Non subito, purtroppo per i dipendenti italiani della Fiat. Oggi viene proposto loro da un manager apolide per eccellenza, come Sergio Marchionne, il quotidiano confronto di convenienza con i loro colleghi statunitensi, polacchi, brasiliani e da ultimo serbi. Cosa rivela questo confronto? Che i produttori d’automobili statunitensi tutelati dal sindacato, pur di continuare a guadagnare molto (28 dollari all’ora) accettano non solo drastiche riduzioni di personale ma anche che i nuovi assunti per fare lo stesso lavoro guadagnino la metà. Dei polacchi sappiamo, erano i candidati alternativi a Somigliano per produrre la Panda: e se non è toccata a loro ciò rivela che il costo del lavoro resta una variabile minore delle strategie aziendali, checché ne scrivano i giornali. Poi c’è il vero spauracchio di Mirafiori, cioè lo stabilimento brasiliano di Belo Horizonte, dove la paga oraria resta molto più bassa ma nello stesso tempo c’è il boom economico che moltiplica le probabilità di vendere automobili. Ecco, se in Brasile gli operai non si metteranno a scioperare per i loro diritti come in Cina, per i salariati nostrani sarà un bel guaio. Infine sono arrivati i serbi, beneficiari della produzione del nuovo monovolume Fiat che speravamo toccasse agli stabilimenti italiani. Più che la differenza di costo del lavoro, anche in questo caso ha pesato l’entità dei finanziamenti pubblici di cui la Fiat beneficerà impiantandosi nei Balcani.
Seguo con totale distacco il prodigarsi impotente dei politici italiani: non possono far leva neanche sul debito morale che la famiglia Agnelli dovrebbe provare nei confronti della sua città d’origine. Intanto perché gli Agnelli sono decaduti e ora si chiamano Elkann. Ma soprattutto perché con lo “spin off” finanziario sta di fatto separando il suo destino dalla produzione automobilistica. I politici e i sindacalisti che facevano il tifo per Sergio Marchionne, affascinati dal suo stile, s’illudevano che le serate in pizzeria comportassero una predilezione per l’Italia anche nelle scelte aziendali. Ma anche se volesse, Marchionne non potrebbe ragionare così. La produzione va dove la orienta il mercato. Speriamo che gli operai cinesi in sciopero, e domani quelli brasiliani, la costringano a dislocarsi con maggiore equità.

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