Loop: Israele, l’Europa e la guerra

lunedì, 2 agosto 2010

Il mensile “Loop” mi ha fatto questa intervista, di cui riporto una sintesi.
Sarà per la “confusione” della sua anima vagabonda di ebreo nato in un paese arabo, che ammira la saggezza dell’Occidente – come ci racconta nel suo ultimo libro Scintille (Feltrinelli, 221 pag., euro 15) un’opera sospesa tra biografia e reportage – che oggi Gad Lerner è fra le voci più attente a segnalare il cambiamento di rotta nelle opinioni pubbliche mondiali di fronte all’evolversi dei conflitti. Se è vero come scrive Lerner che nel 1982 a Milano, dopo il massacro di Sabra e Chatila, ebrei e palestinesi si radunarono insieme e laicamente per la pace, nell’ultimo decennio abbiamo assistito al completo smarrimento di quel pacifismo laico soppiantato dall’incalzante ideologia della guerra preventiva, permanente e globale. Ma al volgere di questo decennio Lerner osserva un’incrinatura di quell’impianto culturale che si scontra con un’ineluttabile realtà secondo cui «sembra ormai disperatamente chiaro, alle opinioni pubbliche dei popoli in conflitto, l’impossibilità di pervenire alla propria sicurezza attraverso l’uso della forza. Anche Israele – continua Lerner – che a lungo si è rassicurato nel pensiero che la superiorità tecnologica, economica e militare delle sue strutture fosse sufficiente a garantirsi la propria tranquillità, da qualche anno ormai ha intuito che questa superiorità scricchiola, non è eterna. E allo stesso modo non gli sarà sufficiente il grande “non detto” della deterrenza nucleare. Questo perché di fronte al confronto armato si manifestano segni di debolezza, inefficienze, imprevisti, minore disponibilità al combattimento tradizionale da parte dei giovani reclutati in Tzahal. Dunque quell’idea, che è tradizionale della destra israeliana, secondo cui solo la forza garantisce l’esistenza dello Stato e che l’unica politica possibile è quella del contenimento della furia nemica, non ha retto più alla prova prima con Hezbollah e poi con Hamas.»
Questa inefficienza, o più in generale l’incapacità delle classi dirigenti di concorrere alla sicurezza degli Stati con strumenti adatti, è figlia del cambiamento “morfologico” dei conflitti. […]
Eppure dinanzi a una tale sconfitta del principio di deterrenza continua, perfettamente interpretato dal governo Netanyahu e dal suo ministro Barak, come mai osserviamo nella comunità ebraica italiana una completa identificazione in questa idea perdente e non osserviamo invece quell’eccezionale fermento che attraversa la stessa società civile israeliana e la comunità statunitense? «La comunità ebraica italiana ha una duplice particolarità. Il primo dato oggettivo è che in Italia c’è una comunità numericamente assai esigua, minuscola, che si conta nell’ordine di poche decine di migliaia di persone. A stento si superano i 20 mila iscritti di contro a una comunità come quella francese che supera gli 800 mila o a quella tedesca che ha superato i 100mila, senza parlare dei milioni di ebrei che risiedono negli Stati Uniti. Quindi le dimensioni rendono asfittico di per sé il dibattito interno alla comunità italiana. Inoltre questa comunità si confronta con il governo Berlusconi – il quale ha una tale ansia di legittimazione derivante dalle origini post-fasciste di una sua parte – che ha fatto del rapporto privilegiato con il governo di Israele un elemento legittimante decisivo e quindi vi ha stabilito un rapporto acritico, differenziandosi in questo dagli altri governi europei, che non hanno questa subalternità culturale e che non si offrono come sponde di qualsiasi azione venga decisa da Netanyahu. Questo è parso evidente anche nel voto alle Nazioni Unite, dove tra i paesi dell’Unione europea solo l’Italia e l’Olanda si sono astenuti sulla risoluzione critica dopo i fatti della Mavi Marmara. Comunque non è un’eresia dire che non è molto rilevante quanto accade in Italia rispetto al quadro mondiale.»
[…]
Lerner è convinto che anche la qualità dell’azione internazionale degli ultimi esecutivi che si sono succeduti in Italia sia imparagonabile. Nonostante l’esiguo peso specifico dell’Italia sullo scacchiere internazionale, Lerner – da osservatore speciale – ha constatato come «il secondo governo Prodi abbia assunto un ruolo autonomo – forzando anche sulle incertezze dei francesi – che ha prodotto la missione di peace-keeping Unifil nel Libano del sud dopo la guerra del 2006 e il tentativo di farsi tramite insieme alla Germania di un possibile dialogo tra la Siria e Israele che separasse le sorti di Damasco da quelle di Teheran. Mentre l’attuale governo Berlusconi ha tentato, apparentemente in continuità con le politiche andreottiane e dalemiane e con la tradizione italiana sponsorizzata dall’Eni, di essere una testa di ponte verso il mondo arabo. Ma questa vocazione naturale geografica dell’Italia nel Mediterraneo è stata forzata da Berlusconi in un rapporto molto ambiguo con la Libia di Gheddafi. Rapporto che riguarda finanza, energia, politiche sule migrazioni e che, com’è nel costume di Berlusconi, è stato trasformato in una sorta di rapporto personale privilegiato e anche un po’ misterioso, opaco.»
[…]
Questo decennio che ci lasciamo alle spalle è stato foriero delle spinte più vertiginose del sistema neoliberista. Spinte che hanno innervato un sistema “non sostenibile” per molteplici aspetti e che ci consegnano una crisi epocale e totalizzante in cui verranno messe in discussione molte delle categorie con cui abbiamo sempre letto il mondo e i rapporti di forza che lo governano. Ma la crisi del capitalismo globale ha trovato certamente impreparate le forze progressiste mondiali, e non solo quelle italiane. «La sinistra – secondo Gad Lerner – per riacquistare quel legame con i ceti popolari da cui si è distaccata può sperare solo che sopravvengano nuovi pensatori globali. Si deve pensare a una soluzione internazionalista che corrisponda al livello dei luoghi decisionali dell’economia, che corrisponda a una capacità regolatoria della finanza, che corrisponda a un contenimento delle spinte esasperate alla disuguaglianza di reddito oggi accettate come naturale e inevitabile. E questo si può fare soltanto in una dimensione internazionale, globale. Dire questo però vuol dire anche ammettere che i tempi sono lunghi. Abbiamo bisogno di un nuovo pensiero radicale che nasca al di fuori della consuetudine con l’establishment che caratterizza la classe dirigente della sinistra, non soltanto in Italia. Guardano al laboratorio dell’America del sud – conclude Lerner – possiamo augurarci che, essendo quelli paesi in forte crescita e avendo culture più vicine alle nostre, possano svolgere un ruolo di riferimento e innovazione di cui abbiamo bisogno e non assolvano esclusivamente al ruolo di nuovi Paesi emergenti nei consumi.»
Claudio Marotta

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