Viale Abruzzi, la scena del delitto

martedì, 10 agosto 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Se amo la milanesità di viale Abruzzi non è solo per gli aperitivi del bar Basso, i cui giganteschi cubi di ghiaccio mi divertono fin dall’infanzia; o per la comoda multisala del Plinius, segno di una modernizzazione che l’hammam delle Rose sorto di fronte condisce di esotismo.
Da mezzo secolo, in ogni ritorno a Milano, tutta la mia vita familiare ruota lì intorno e ho imparato ad apprezzarne le caratteristiche di laboratorio sociale interclassista, a metà strada fra il centro e la periferia. Lessi con dispetto le grossolanità dei tabloid inglesi, quando si sparse la voce (falsa) che i Beckam sarebbero venuti a vivere lì davanti, nell’attico in cui trascorse la gioventù Paolo Maldini. Blateravano di “zona malfamata”, mentre ci si vive benissimo. A condizionarli è stato l’allarme scatenato dai politici che governano la città da vent’anni, e che nell’approssimarsi di ogni scadenza elettorale promettono di “ripulire viale Abruzzi” dallo scandalo della prostituzione di strada.
Quando la neoministra Mara Carfagna presentò un disegno di legge che per punire insieme venditrici (o venditori) e compratori di sesso da strada –rapidamente insabbiato quando la parola “escort” s’impose nelle cronache di palazzo- il nostro quartiere divenne oggetto di scorribande dimostrative. Ricordo in particolare Daniela Santanchè, protagonista di una perlustrazione notturna con giornalisti al seguito, il cui esito vi lascio immaginare. Le due miti ragazze che stazionano fin dall’ora di pranzo di fronte al supermercato, insieme a un accattone e che le osserva paterno, non hanno mai smesso la loro esposizione. Né si è mai interrotto, nell’oscurità, lo stazionamento dei viados agli incroci di via Plinio e di viale Gran Sasso, mentre altre giovani si dislocano sugli angoli, sorvegliate da un’umanità meno raccomandabile che gravita intorno agli alberghetti di piazza Aspromonte. Nel corso dei decenni sono mutate le nazionalità, non la natura del commercio.
E’ capitato anche a me di essere svegliato da grida notturne, talvolta euforiche ma più spesso minacciose, o di richiesta d’aiuto. In quei casi provi un senso d’impotenza e di viltà: tu stai al caldo fra le lenzuola e giù da basso potrebbe consumarsi un dramma che vuoi solo ignorare. Quando poi un viaggio mi costringe alla levataccia, alle cinque o alle sei del mattino, trovo ancora per strada i prostituti sfranti in attesa dell’ultimo rimorchio, e nei loro occhi truccati grossolanamente leggo l’angoscia.
Eppure la tragedia di viale Abruzzi si è consumata in pieno giorno, sotto il sole d’agosto. In uno scenario ben diverso da quello previsto dagli imprenditori politici della paura. Le urla che hanno indotto tanti vicini di casa a chiudere le finestre, pur di rimuovere l’imperativo del soccorso, non erano quelle di una ragazza in vendita ma di una malcapitata lavoratrice domestica filippina, madre di due figli. Emlou Arvesu, questo il suo nome, era una delle tante che accompagnano a passeggio i nostri vecchi non autosufficienti o i nostri bambini. Ingranaggi silenziosi della nostra vita.
Il suo aspetto di donnina minuta, forse il colorito orientale della sua pelle, l’hanno fatta prescegliere fra tante altre come oggetto di furia dissennata. Un pugile di 25 anni, Oleg Fedchenko, l’ha uccisa a pugni perché non gli bastava strapparle la borsetta per sfogare una violenza psicotica accumulata chissà come. Noi passanti, siamo passati oltre. Impotenti. Paralizzati. Perché il male che si manifesta innanzitutto contro le donne assume forme spesso diverse da quelle disegnate da una propaganda di comodo. Ci scopriamo tutti peggiorati, noi abitanti del quartiere di viale Abruzzi.

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