Marchionne e la lotta di classe scomparsa

venerdì, 27 agosto 2010

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Sapiente e immaginifica, la sequenza delle diapositive che scorrono dietro alla polo nera di Sergio Marchionne sul palco riminese, ne esalta il profilo avveniristico, extraitaliano, ma non ne stempera la tensione. Orme sulla sabbia dirette verso l’ignoto quando racconta la sua emigrazione in Canada a 14 anni, e poi la catena spezzata di una palla al piede da cui non riesce ancora a liberarsi. Messaggi subliminali, niente foto di operai o di scocche alla catena di montaggio.
E’ offeso Marchionne, non solo affaticato, e vuole darlo a vedere. Descrive con brutalità inedita “il grande male della Fiat” cui approdò nel 2004, rinunciataria al confronto col resto del mondo, chiusa in se stessa, come la penisola che adesso non saprebbe rendergli il giusto merito per i risultati conseguiti. Poco gli importa se già prima di lui, a partire dal 1980, altre generazioni di manager avevano ottenuto la flessibilità del lavoro che oggi invoca, e l’abbattimento delle ore di sciopero, senza però che la Fiat ne abbia tratto vantaggio rispetto ai concorrenti. Forte del suo indubbio fascino, è come se tutto potesse ricominciare da lui, incarnazione della metamorfosi dal locale al globale, in uno sforzo titanico ma incompreso.
“Sfortunatamente ho l’impressione che in Italia non ci siano interesse o fiducia”, lamenta, verso una Fiat trasformata nell’intreccio salvifico con Chrysler. Cita subito l’incidente di Melfi come episodio meschino, trascurabile, che però lo costringe a sorvolare sui veri temi sociali, la “violenza della povertà”, il suo incontro a Davos con Nelson Mandela. Rivolgendosi alla platea evita di chiamare in causa il presidente Napolitano e i vescovi italiani tra i colpevoli dei “fischi” che bersagliano la Fiat. Solo più tardi, davanti alle telecamere, scenderà sul terreno della diplomazia riconoscendo la legittimità della lettera inviata dal Quirinale ai licenziati di Melfi, e l’onestà intellettuale di Guglielmo Epifani con cui è pronto a incontrarsi. Parole importanti che lasciano aperta la via del dialogo, ma che non attenuano il suo bisogno di sfidare Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli anche sul terreno dell’etica: “Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti”, dice fra gli applausi della folla ciellina, antisciopero per indole genetica.
E’ come se quella sua maglietta stropicciata, non così dissimile dalla blusa celeste indossata dagli operai che lo seguono in diretta dal cancello di Melfi, e la fatica evidente nel suo sguardo di eterno viaggiatore trasandato, così diverso dagli altri damerini dell’establishment nostrano, pretendessero di colmare anche il divario del suo reddito, 435 volte più elevato del loro. Ma la verità è che la neonata Fabbrica Italia neppure dal palco di Rimini è in grado di delineare un’evoluzione migliorativa della condizione operaia. L’imprenditore aspira a salvare il comparto italiano dell’auto, e non sarebbe poco, ma gli resta precluso un intervento trasformatore del lavoro di fabbrica già tanto sacrificato.
Ricorda “la notte in cui è stata bloccata la produzione in modo illecito” come un torto intollerabile. Fu a Melfi, una notte d’aprile in cui i critici della Fiom Cgil per lo più dormivano, certo non lavoravano in turni a ciclo continuo. Ma questo rimane scontato per tutti, com’è inevitabile, Fiom Cgil compresa.
Meno scontato è il riferimento che Marchionne ha voluto fare, raccogliendone il più caldo dei consensi riminesi: “Non siamo più negli Anni Sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra ‘capitale’ e ‘lavoro, tra ‘padroni’ e ‘operai’”. Musica per le orecchie del cattolicesimo conservatore italiano. Solo che Marchionne parlava di mezzo secolo fa, di un’epoca conflittuale da cui peraltro trassero benefici sia l’azienda che le sue maestranze. Gli operai incorsero poi nella sconfitta del 1980, seguita da un trentennio senza lotta di classe. Riesce difficile considerare inedita la pur sensata proposta che Marchionne ne ha fatto derivare, mostrando la diapositiva di un albero, la Fiat, germogliato su radici tricolori: “Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici”.
Ieri ad ascoltare in prima fila l’appello alla concordia del manager italo-canadese-statunitense c’era pure Giampaolo Pansa, che nel 1988 celebrò in un libro trionfale, con Cesare Romiti, la fine della lotta di classe alla Fiat. Neppure allora mancò la promessa di un “patto sociale”, stipulato sotto l’egida di Ciampi qualche anno dopo, e seguito dalle dimissioni di Bruno Trentin da segretario della Cgil. Ne scaturì un’ulteriore compressione del reddito operaio, senza peraltro riscuotere dagli industriali la contropartita degli investimenti pattuiti. Ciò non invalida la fondatezza della richiesta di Marchionne, ma spiega lo scetticismo che lo indispettisce, radicato in chi dovrebbe accoglierla.
L’amministratore delegato della Fiat ha letto un discorso onesto e chiaro, in cui non gli bastava presentarsi come l’imprenditore capace meglio di chiunque altro di fronteggiare le dinamiche della competizione spietata tra i gruppi automobilistici superstiti. Ha citato Pavese sulla fatica del viaggiare, Hegel sulla fatica della conoscenza, Machiavelli sulla fatica della virtù. Ha rivendicato la sua onestà intellettuale e il suo disinteresse per le schermaglie politiche italiane. Niente a che vedere con le malizie di un Geronzi o di un Tremonti, lui si colloca altrove. Ma proprio questa sana ingenuità lo ha condotto a riproporre uno schema logico che in Italia ha già subito troppe smentite: “Rifiutare il cambiamento a priori significa rifiutare il futuro. Se non siamo disposti ad adeguarci al mondo che cambia, ci ritroveremo costretti a gestire solo i cocci del nostro passato”.
Piace sempre, al pubblico consenziente, l’idea che dare addosso agli oppositori ci nobiliti quali paladini del domani. Ma quante volte se lo sono già sentiti ripetere, i lavoratori dipendenti, dalle più diverse campane, che le rinunce odierne avrebbero generato benefici futuri, che la flessibilità concessa sarebbe stata a buon rendere, che i sacrifici sarebbero stati equamente ripartiti?
La crescita delle disuguaglianze e l’arricchimento spropositato dei manager sono rimasti tabù, nel discorso umanistico del laureato in filosofia all’università di Toronto divenuto capo-azienda. Mentre si abbattevano sul padiglione fieristico due affermazioni pesanti come macigni, scandite in quanto verità inconfutabili.
La prima: “La verità è che l’unica area del mondo in cui l’insieme del sistema industriale e commerciale del Gruppo Fiat è in perdita è proprio l’Italia”.
La seconda: “La verità è che la Fiat è l’unica azienda disposta a investire 20 miliardi di euro in Italia, l’unica disposta a intervenire sulla debolezze di un sistema produttivo per trasformarlo in qualcosa che non abbia sempre bisogno di interventi d’emergenza”.
Due volte “la verità”, per ribadire un concetto ben conosciuto nella storia di questo paese: cioè la pretesa coincidenza fra gli interessi della Fiat e gli interessi della nazione. Il senno di poi ci raccomanda di sottoporre a esame critico tale assunto. Ma i ciellini ieri a Rimini parevano credere davvero che se in Italia la Fiat ha i bilanci in rosso ciò dipende da eccessi di conflittualità sindacale e dalla prepotenza di operai “rossi” come i licenziati di Melfi. Accompagnando Marchionne all’uscita, qualcuno lo incoraggiava a guidare una riscossa ideologica sulle anacronistiche pretese della Cgil: “Sergio, siamo tutti con te!”. “Siamo pronti a rifare la marcia dei quarantamila!”.
Lui se ne compiace, si ferma a stringere mani, ma è troppo intelligente per cascare in questa tentazione di revival. Conosce meglio di noi i limiti attuali della gamma di modelli Fiat e le vere ragioni che determinano una grave contrazione delle sue vendite, anche in rapporto alla concorrenza.
Quanto ai 20 miliardi di investimenti programmati in Italia, non dipendono certo da generosità o vocazione patriottica del Lingotto: il mercato italiano dell’auto vale tuttora il 40% sul totale del fatturato Fiat. Sarebbe irresponsabile rinunciarvi, viste le incognite che si addensano sul futuro.
Ha deciso di “passare per rude”, non è certo un arringatore di folle. Marchionne legge nel suo italiano con accento yankee e sembra aver fretta di risalire sull’aereo. Un marziano a Rimini. Avrà pure la tentazione di sottrarsi al groviglio sociale del lavoro italiano, ma ormai ha capito che non gli sarà possibile.

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