Gianfranco Fini: psicologia e ascendenze

mercoledì, 8 settembre 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Forse ho riconosciuto domenica sera, mentre Gianfranco Fini proclamava a Mirabello la fine di un Popolo della Libertà nel quale mai per davvero aveva creduto, qual è il tratto della sua indole di destra che lo ha costretto a rompere con Berlusconi dopo quindici anni di convivenza. Fatico ad apprezzare come virtù questa indole, perché mi turba la sua inconfondibile filiazione culturale. Ma guai se tocchi a Fini il principio destrorso di autorità e disciplina; laddove naturalmente il capo è lui per investitura del predecessore: il vecchio Giorgio Almirante, fascista evoluto ma fascista vero. Gli altri, i vari La Russa, Gasparri, Alemanno, Matteoli, saranno al massimo colonnelli, pronti a cambiar generale, e come tali facilmente rimpiazzabili.
Psicologicamente la frase-chiave del discorso tenuto a Mirabello, cioè in un paese rosso del ferrarese dove fu durissimo, a più riprese nel Novecento, lo scontro tra fascisti e antifascisti, Fini l’ha pronunciata in replica ai tentativi di intimidire lui, la sua famiglia e i collaboratori rimasti fedeli: “Ci vuole ben altro per spaventare noi, gente capace di organizzare in tempi assai più duri un raduno della destra qui, sotto minaccia fisica degli avversari”.
Berlusconi viene da tutt’altra storia, non poteva capire l’applauso complice scattato fra gli “ex” appestati, nostalgici di una gioventù pericolosa, sbagliata, ma vissuta eroicamente. Fini per sopravvivere politicamente aveva bisogno di continuare a sentirsi un capo. Magari un capo isolato e cinto d’assedio, ma pur sempre un capo. Imborghesito dal potere? Certo, non ricordo un capo italiano di quel suo genere che non sia stato indulgente nella concessione di privilegi familiari e clientelari, minimizzandoli come bagatelle. Diversi imprenditori raccontano in privato che, giunti finalmente al potere, gli uomini di Alleanza Nazionale si sono rivelati spesso più famelici nelle loro pretese di certi socialisti della corte craxiana. La casa di Montecarlo e le raccomandazioni nel sottobosco romano attribuite a Elisabetta Tulliani, risulterebbero ben piccola cosa se “Il Giornale” di Feltri estendesse per coerenza la sua inchiesta a senso unico, che non sarebbe mai neppure cominciata se Fini fosse rimasto fedele a Berlusconi.
Il trapasso di Fini dal fascismo al post-fascismo fu sbrigativo, enigmatico ma non liquidabile come una furbizia. Ricordo un episodio del 1992 alla Rotonda di via Besana, a Milano, quando fui invitato a una festa del Movimento Sociale Italiano e dal palco ricordai che se fosse rimasta al potere quella corrente politica, io non avrei potuto studiare nelle scuole pubbliche né tanto meno lavorare nella televisione di Stato. La platea cominciò a rumoreggiare, ma Fini la solcò a larghe falcate e, giunto sul palco, la tacitò severamente. Poche settimane dopo celebrava ancora l’anniversario della marcia su Roma delle camicie nere: servirono tre anni ancora per sciogliere quella contraddizione, non senza strappi dolorosi. Ne emerse l’idea che la destra potesse usare strumentalmente la forza propulsiva di Berlusconi per uscire dal ghetto, ma senza accettare la sua concezione proprietaria della politica. Cioè senza farsi comperare dal denaro di un imprenditore.
Il capo della destra doveva restare lui, con tutta l’ambiguità ereditaria di Almirante. Questo davvero Berlusconi non l’aveva messo nel conto.

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