Sionismo, cittadinanza e democrazia

martedì, 19 ottobre 2010

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Risuona tristemente familiare alle nostre orecchie la controversia sulla cittadinanza in corso nello Stato d’Israele. Ci tocca da vicino non solo per i vincoli storici di solidarietà che legano l’Europa al popolo ebraico dopo la Shoah. Ma perché rende evidente l’affanno con cui, non solo in Medio Oriente, gli acerrimi difensori di un’idea sdrucciolevole qual è lo Stato-nazione s’illudono di farne coincidere lo spazio geografico, le frontiere, con l’imposizione al loro interno di un’omogeneità etnica e religiosa. Se necessario contro la demografia, contro la laicità, e quindi perfino contro la democrazia. Siamo proprio sicuri che tale dilemma non riguardi anche le altre democrazie?
Sollecitato dall’estrema destra, il premier Netanyahu ha fatto approvare dal consiglio dei ministri un disegno di legge in base al quale i non ebrei aspiranti alla cittadinanza –finora tenuti a promettere lealtà alla Stato d’Israele e alle sue leggi, come avviene in molti altri paesi- dovrebbero in futuro assumersi un impegno ulteriore: giurare fedeltà a Israele in quanto “Stato ebraico e democratico”. Cosa significa rispettare la natura democratica di uno Stato, ci è chiaro. Ma cosa significa rispettarne la natura ebraica, soprattutto per chi ebreo non è?
Proviamo a trasferire in Italia l’analoga domanda da rivolgere ai suoi nuovi potenziali cittadini. Gli chiederemmo di giurare fedeltà a una religione, a un codice genetico, a una lingua, a una storia, o a cos’altro che non sia la Costituzione repubblicana?
Eppure i cultori di un’italianità da custodire al riparo di intrusioni, sacralizzata magari dal richiamo a una religione sminuita come mera tradizione, compiono la medesima forzatura di chi pretende che un arabo per diventare israeliano giuri fedeltà allo Stato ebraico.
Non a caso i padri fondatori del movimento sionista maneggiarono sempre con estrema cautela la nozione di “Stato ebraico”, fin dal manifesto di Theodor Herzl del 1896. Dove peraltro la laicità dell’autore escludeva qualsiasi riferimento biblico, fino a proibirsi di scrivere la parola Israele. Semmai in Herzl l’aspirazione a edificare un focolare nazionale per quella minoranza dispersa e discriminata –da lui definita “un anacronismo” e, addirittura “uno strascico di medioevo”- rispondeva a una necessità emancipatoria: per quella via gli ebrei dovevano acquisire “un’onorevole protezione e parità di diritti”. Normalizzarsi nella modernità, non perpetuare la distinzione cui la storia li aveva condannati.
Con la medesima premura il 14 maggio 1948, leggendo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, David Ben Gurion riconosceva “completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Giustamente il ministro laburista Avishai Braverman, che insieme a altri sette colleghi di governo ha votato contro il nuovo disegno di legge sulla cittadinanza, sostiene che “Ben Gurion si rivolta nella tomba di fronte a una tale macchia”.
La stessa “legge del ritorno” in base a cui lo Stato d’Israele naturalizza immediatamente come suo cittadino qualunque ebreo chieda di esservi accolto, corrispondeva allo spirito di dare rifugio a un popolo di fuggiaschi, ma senza privilegiarli rispetto ai cittadini non ebrei. Che oggi corrispondono al 20 per cento della popolazione totale e rappresentano ogni anno la metà dei nuovi nati.
Contrastare il fattore demografico con una barriera identitaria non è solo disonorevole e illusorio per una democrazia: è letale. L’ha spiegato efficacemente agli israeliani Sergio Della Pergola, docente di statistica all’università di Gerusalemme: non sarà loro possibile preservare contemporaneamente le tre prerogative di uno Stato grande, ebraico e democratico. Una di esse, almeno, andrà perduta. Ma se Israele scegliesse di rinunciare alla sovranità sugli insediamenti nei territori occupati, è forse pensabile che i coloni ebrei giurino fedeltà a uno Stato palestinese (o islamico)?
“Sento puzza di fascismo”, ha denunciato amaramente Yitzkak Herzog, anch’egli ministro e figlio di un fondatore dello Stato ebraico. Lui ragiona da uomo laico. Ma deve preoccuparsi altrettanto chi ha a cuore le sorti spirituali millenarie dell’ebraismo, che una convenienza governativa spregiudicata vorrebbe mortificare a requisito di fedeltà statuale, rinnegandone i significati. Mentre la dura critica avanzata nei confronti di Netanyahu da parte del Sinodo speciale sul Medio Oriente convocato da Benedetto XVI rischia di far retrocedere le relazioni fra Israele e il Vaticano all’epoca preconciliare, quando la Chiesa malediceva come una profanazione la nascita di uno Stato ebraico in Terra Santa.
L’ossessione identitaria che pretende di codificare le appartenenze comunitarie su base etnocentrica o religiosa, negando la sua prepotenza confessionale solo perché i suoi cultori senza fede si camuffano da laici, rivela così il proprio limite: divide i seguaci lungo demarcazioni impreviste. Ma questo è solo un dettaglio.
Di ben altra, drammatica portata è il malessere rivelato dalla società israeliana sotto assedio, frazionata e disorientata. E’ l’impianto stesso del progetto sionista a scricchiolare, col rischio di cadere nel medesimo gorgo in cui l’islamismo ha già da tempo risucchiato il nazionalismo arabo.
Il sionismo snaturato come esclusivismo aggrava le incognite da cui vorrebbe proteggere gli israeliani, nega la missione salvifica d’Israele. Ma non illudiamoci: a Gerusalemme, certo con maggiore urgenza, stanno cimentandosi con i dilemmi che attendono al varco tutte le democrazie.

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