La famiglia come fattore criminogeno

mercoledì, 20 ottobre 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Non sia mai che rubo il mestiere alla strizzacervelli ufficiale di “Vanity Fair”, Irene Bernardini, specialista in mediazione di conflitti familiari e dunque conoscitrice dei meandri in cui si va a cacciare la nostra psiche quando l’amore le si presenta come un obbligo di consanguineità. La Bernardini in questione, a parte l’esperienza, è congenitamente dotata di sensibilità femminile in dosi nettamente superiori alla mia (dubitate forse che la sensibilità femminile possa annidarsi anche nei maschi?). Come dimostra il suo nuovo libro, “Elogio di una donna normale” (Mondadori) che caldamente vi raccomando. E proprio per questo non me la vedo seduta in un talk-show televisivo di quelli che fanno schizzare all’insù gli ascolti dissertando in lungo e in largo del delitto di Avetrana. L’opinionista morboso di successo è colui che assolve a un mandato preciso conferitogli dal capoguardone, ovverosia il conduttore della trasmissione: bisogna che il telespettatore si goda lo spettacolo del male, con giusta dose di brividi e mistero, senza mai sospettare che i suoi personali malesseri relazionali rassomiglino a quelli del “mostro” sotto i riflettori.
A me è capitato in una trasmissione di Raidue. Parlando del reo confesso Michele Misseri, il conduttore ha alterato il tono della voce: “Posso dire che è un porco, un essere disgustoso, almeno su questo siamo d’accordo tutti, no?”. Ci stava aizzando inutilmente, visto che lo zio di Sarah Scazzi era già detenuto, per fortuna, in un carcere della Repubblica. Eppure il conduttore ha accolto con fastidio l’obiezione: “Mi sembra sufficiente definirlo un omicida, o se preferite una persona colpevole di un delitto efferato”. Quasi che con ciò io –il solito “buonista”- cercassi di fornire attenuanti al bruto.
Successivamente gli sfruttatori mediatici delle famiglie Scazzi e Misseri, nonché dei paesani di Avetrana sempre collegati in veste di comparse, hanno potuto rilanciare grazie all’arresto di Sabrina, figlia e cugina, attrice e/o sicaria. Le si scagliano addosso con la stessa energia profusa fino al giorno prima nel fingere di compatirla. Un boccone ghiotto due volte. Ma neanche in questo caso la nostra strizzacervelli e mediatrice di conflitti Irene Bernardini avrebbe funzionato come opinionista della costernazione. Rischiava di dire cose troppo sgradevoli per il telespettatore medio, desideroso di osservare lo spettacolo del crimine come esito di un ambiente insano, distante dal proprio.
Invece il delitto di Avetrana, pur nella sua eccezionalità dovuta soprattutto alla relazione intensa stabilita da tutti i protagonisti della tragedia con la tv guardona, al dunque conferma una regola imbarazzante e sottaciuta. Se una percentuale elevatissima degli omicidi di persone di sesso femminile viene consumato in ambito familiare, non è gradito ricordare che ciò dipende dal fatto che la famiglia è il principale agente criminogeno nella nostra società.
Lo capisco, suona male: famiglia criminogena. Di colpo gli urlatori specializzati contro rom, trans, radical chic, buonisti, comunisti, futuristi, clandestini, toghe rosse, matrimoni gay –sempre così solleciti nella demolizione del tanto vituperato regime “politically correct”- riscoprono il perbenismo: guai a dire che tra genitori e figli, o tra fratelli, l’amore non è garantito dal sangue in comune; che il vincolo parentale non ci preserva dai peggiori istinti ma talvolta li alimenta, specie quando il legame stringe come una catena; che la rimozione, l’inconsapevolezza, il venir meno della confidenza riempiono di zone oscure tutte le famiglie, nessuna esclusa, perché tutte incontrano prima o poi il dolore, la malattia, la morte, e innumerevoli altre manifestazioni del male. Gestire il rapporto con tale oscurità richiede virtù razionali, le più faticose da apprendere e insegnare, non solo buoni sentimenti. Vaglielo a dire in tivù.

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