Alessandro Piperno nel tritacarne mediatico

mercoledì, 27 ottobre 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Appena ho ricevuto le bozze del secondo, attesissimo romanzo di Alessandro Piperno –sarà all’altezza dell’esordio, il nostro professore?- la curiosità mi ha spinto a leggerne subito l’incipit: “Era il 13 luglio del 1986 quando un imbarazzante desiderio di non essere mai venuto al mondo s’impossessò di Leo Pontecorvo”.
Niente male, ma… proprio in quel momento un piccolo insetto nero liberatosi dalla rilegatura s’è messo a zampettare di corsa fra le righe. Infastidito, l’ho schiacciato con il pollice. Ma il bastardo era rigonfio del sangue di chissà chi, e pertanto una sinistra traiettoria rosata ha sfregiato la prima pagina. Un presagio?
Di certo i capoversi successivi confermavano che si sarebbe trattato di un incubo per lo stimato medico pediatra oncologo ebreo romano Leo Pontecorvo, costretto ad apprendere dal telegiornale, durante la cena in cucina con la moglie Rachel e i due figli Filippo e Samuele, serenamente riuniti nella loro villa all’Olgiata, di essere accusato niente meno che di molestie sessuali ai danni della dodicenne Camilla, cioè la fidanzatina del suo secondogenito.
Prima ancora di incontrare a pagina 239 l’opportuna evocazione di Gregor Samsa, il celeberrimo uomo trasformato all’improvviso in scarafaggio dal genio di Kafka, a me era dunque accaduto di collegare la lettura di “Persecuzione” a un crudo approccio entomologico. Lo avranno fatto apposta, i furbacchioni del marketing Mondadori?
E dire che mi ero preparato ben altra premessa a questa recensione. Volevo vantarmi di aver segnalato entusiasticamente ai lettori di “Vanity Fair”, cinque anni fa, la saga della famiglia Sonnino (“Con le peggiori intenzioni”), prima che diventasse un caso editoriale e un best seller. Mi avevano attirato il tema e la copertina, ma ignoravo chi fosse l’autore. Che poi ho incontrato una sola volta, guarda caso in un centro culturale ebraico romano, alla presentazione del mio “Scintille”, da lui a sua volta recensito con sapida ironia. Tutto depone quindi contro di me? Siamo artefici di un odioso scambio di cortesie fra autori diseguali? Dovrei stroncare “Persecuzione” per dissipare questo sospetto. Confermare la regola che l’esordiente di successo proprio non ce la fa a bissare l’opera prima.
Vediamo se ci riesco. Il libro è sicuramente furbo, o meglio furbi sono i suoi ingredienti: mescolate in quattrocento pagine le dosi giuste di borghesia romana, cancro, congressi medici, sesso, anzi, meglio ancora, pedofilia, un pizzico di craxismo degli anni rampanti che precedono Tangentopoli e dosi abbondanti di ebraismo; condite il tutto con aromi di giallo e tritacarne mediatico, senza dimenticare i conflitti generazionali e l’avvocato cinico e una moglie straordinaria. Vorrete mica che ne venga fuori men che una storiaccia ruffiana?
E invece Piperno mi ha fregato di nuovo. Dapprima con l’accudimento meticoloso, quindi degno di rispetto, della sua creatura letteraria: un anno fa decise stoicamente di rinviarne la pubblicazione. L’ha riscritto, l’ha spezzato in due volumi, ciascuno compiuto in sé, lasciandoci già con l’acquolina in bocca di leggerne il seguito. Ma mi ha fregato soprattutto con la sua prosa. Il racconto incede sinuoso, per frasi lunghe che ti avvolgono. Orchestrato da uno strano io narrante che in certi punti rallenta, il maledetto, e pare quasi che divaghi per esasperare in noi l’attesa degli eventi decisivi, ma invece poi capisci che era necessario. Ti eleva e poi ti infilza con una parolaccia perché la sventura del professor Pontecorvo –bello, prestigioso, cresciuto nella bambagia ma virtuoso e meritevole, inadatto alle asperità del conflitto- è tanto più tragico in quanto il nostro cinismo lo può liquidare indifferentemente come buffo o detestabile. E questo per il capriccio con cui ci siamo abituati a ridurre una vita sconvolta a mero fatto di cronaca.
L’ironia è la cifra di Piperno, tanto più necessaria quando lui, fumatore di pipa, si dedica a descrivere Leo Pontecorvo strattonato fino a perdere la propria, di ironia, e a lasciare gli Antichi Toscani e la Jaguar, per strisciare infine sul fondo.
Così il docente di letteratura francese, fedele studioso di Proust, sempre trattenuto nello sforzo di una letteratura classica rigorosa, ma con propensione al comico e agli inserti gergali, perviene a cimentarsi piuttosto con il romanzo borghese alla Balzac. Senza però che il divertimento con cui traccia il suo affresco della catastrofe giudiziaria gli impedisca di viverne la disperazione.
Pare una bestemmia paragonare la storia di Leo Pontecorvo a quella di Giobbe. Per tutto il libro resteremo nel dubbio se il protagonista sia un peccatore o solo un debole. Eppure, come non pensarci? Sprofondato a vivere per mesi nel sottoscala della sua abitazione lussuosa, senza più alcun contatto con le tre persone a lui più care che vi soggiornano ignorandolo, e di cui Leo scruta solo gli arti inferiori da una finestrella quando escono ogni mattina di casa, è inevitabile che muti anche la sua relazione con il soprannaturale. “Persecuzione”, infatti, è un libro in cui Dio passa dall’essere scritto con una fastidiosa d minuscola all’enfatica, temibile maiuscola di Giobbe. Ma è anche un libro in cui compaiono misteriosamente delle illustrazioni disseminate non si capisce bene perché e da chi, quasi che il “fumettista invisibile” dovesse rappresentare una “presenza intorno” propagatrice, lei sì con la scritta tutta in maiuscolo, di IMBARAZZO.
Fin dal primo dei disegni, raffigurante il salvaslip insanguinato che l’adolescente Camilla lascia (a bella posta?) nel bagno dello chalet di montagna, come un messaggio tentatore, perché lo trovi quell’uomo seducente che è il padre del suo fidanzato. Spero non abbia nulla a che fare con l’insetto sanguinolento che zampettava sulle mie bozze!
Quando Camilla imprigiona il cinquantenne marito fedele, troppo consapevole del suo fascino per cercarne ulteriori conferme in avventure extraconiugali, nella ragnatela delle sue lettere e delle sue pretese morbose, siamo portati a temerla come un demone. Ma sarà davvero così? L’impressione di “promiscuità e violazione” sprigionatasi in Leo Pontecorvo, per un attimo scosso da “concupiscenza” per una ragazzina maliziosa che ha l’età acerba dei suoi pazienti e dei suoi figli, durante una sciagurata vacanza natalizia, era davvero qualcosa più di un’impressione?
Imbarazzo è dunque la parola chiave di questa persecuzione, la quale si manifesta in forme che dovrebbero risultare familiari all’oncologo, non fosse afflitto da inconsapevolezza, e non avesse delegato alla moglie-madre Rachel l’intera gestione dei suoi problemi esistenziali, per concentrarsi nella carriera. Possibile che non riconosca una metastasi?. E’ il suo successo che ha generato la sua disgrazia, proprio come accaduto a quel Bettino Craxi per cui Leo prova tanta simpatia. Ma soprattutto come accade nella patologia di cui è un luminare: “Il cancro è una malattia diversa da tutte le altre –spiega Piperno- non è un agente esterno che attacca il corpo, ma una parte del corpo stesso: una parte ribelle autodistruttiva, uno di famiglia che ha deciso di suicidarsi. Il cancro non è una parte di noi. Il cancro siamo noi”.
Come i tessuti del nostro corpo, anche l’imbarazzo può dare luogo a un processo degenerativo che, in “Persecuzioni”, come già in “Con le peggiori intenzioni”, Piperno sa narrare magistralmente: l’imbarazzo degenera in vergogna.
Io che la sento così familiare, e per certi versi dolorosamente preziosa, ho seguito il ramificarsi della vergogna lungo tutta la trama incalzante del romanzo, ben oltre il suo avvio fulmineo. La vergogna opprime fin da bambina Rachel, una moglie che ne trae addirittura la forza necessaria a fingere con se stessa e con i figli, giorno dopo giorno, che quel marito-padre rintanato laggiù come un insetto semplicemente non esista più. Timida, riservata, restia a qualsivoglia controversia, Piperno opprime di vergogna Rachel a partire da piccoli gesti lontani che ancora le vibrano dentro (potrei dire lo stesso di me): “Troppo bruciante il ricordo del padre che, dopo aver consumato un pasto al ristorante, se ne stava lì con gli occhialetti da bottegaio ad analizzare il conto, voce per voce. Per non dire delle volte che, trovato qualche errore, chiamava il proprietario e glielo mostrava con una certa malagrazia. Da allora Rachel aveva giurato a se stessa: mai più”. Mi complimento e sottoscrivo, ahimè.
Ma la vergogna, nel mentre che riduce il professor Pontecorvo a scandalo, per lui gigantesco e letale, per noialtri sollazzevole, si manifesta pure in un altro personaggio che trovo ammirevole perché ha saputo riciclarla come energia vitale: il formidabile avvocato Herrera Del Monte. Un penalista capace di accogliere in studio l’amico cliente con una frase come questa: “Ma, tesoro mio, credevo che il rabbino Perugia te lo avesse insegnato che la fica dodicenne non è kasher”. E tanto basti, perché è chiaro che dietro Herrera ci sono una madre tremenda, un aspetto fisico sgradevole, un successo conquistato con la spregiudicatezza e un maldestro arrembaggio alle donne; il tutto vissuto come vergogna.
La parte di noi che viceversa non conosce la vergogna, perché si è ridotta a pubblico pagante, seguirà con gusto “il pastrocchio di cattiva sanità, infanzie violate, collusioni politiche, iniquità accademiche” in cui la stampa riproduce questo caso giudiziario degli anni Ottanta. Regalando alla gente comune l’illusione “di essere sostanzialmente più onesta e meritevole di tutti i Leo Pontecorvo del paese”.
A questo punto, caro Piperno, dichiaro la mia stizza per l’idea balzana, biecamente commerciale, di spezzare il libro in due con la scusa che effettivamente il romanzo ha un suo finale coerente, benché seguito dall’infame parola: continua. Mi fa rabbia restare in attesa per un anno del secondo volume, già pronto in Mondadori, nel quale ho sentito dire che da Roma ci trasporterai in Israele, solo perché nel frattempo sapete di poterne vendere caterve di copie del primo. Ma devo ammetterlo: con “Persecuzione” ti sei superato.

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