Il grande complotto di Umberto Eco

venerdì, 29 ottobre 2010

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Erudito e pop, bieco e appassionante, a trent’anni dall’uscita de “Il nome della rosa” il sesto romanzo di Umberto Eco ci trascina nel gorgo irrazionale della modernità fino a rivelarci come possa esserne scaturito un progetto di sterminio totale.
Mi ha colpito la fluidità con cui la trama scorre attraverso cinquecento pagine di intrighi spionistici (al lettore stavolta Eco risparmia certi sforzi interpretativi cui ci aveva costretti in passato, chiede solo di lasciarsi condurre nel ritmo incalzante dei colpi di scena), riuscendo nell’impresa di far apparire naturale, scorrevole, una monumentale ricostruzione storica del morbo cospirazionista. Si compiace, a un certo punto, il falsario Simonino Simonini, protagonista sconvolgente e unico personaggio di fantasia de Il cimitero di Praga (Bompiani, pagg.523, euro ): “Non c’è che parlare di qualcosa per farlo esistere”. Ed è per questo che il semiologo deve farsi scrittore, e lo scrittore “leggero” si conquista la credibilità dello storico.
Basta che Simonini, divenuto esperto fabbricatore di dossier, dopo un apprendistato di falsi testamenti e smercio di ostie consacrate per messe sataniche, inventi nel 1898 il verbale di un raduno cospirativo notturno di rabbini fra le lapidi del cimitero israelitico di Praga -a scopo di lucro, naturalmente, distillandovi la sua avversione per gli ebrei- e subito un mondo intero che non aspettava altro vi si aggrapperà nel credersi vittima di un subdolo progetto di dominazione giudaica. E’ successo davvero, come ci insegna la rapida propagazione, tra plagi e compravendite, dei “Protocolli dei Savi di Sion” in parallelo ai pogrom che anticiparono la soluzione finale nazista.
Tutti noi abbiamo una strega o un orco delle favole che ha ingombrato i nostri incubi da bambini. A Simonino è toccato lo spregevole ebreo Mordechai, nascosto nel ghetto di Torino dopo aver perpetrato un omicidio rituale. Che paura i racconti del nonno sull’ebreaccio. Suscita invece l’ammirazione del nipote che il capitano sabaudo Giovan Battista Simonini abbia segnalato per lettera il pericolo ebraico all’abate Barruel (circostanza, questa, storicamente provata) contribuendo a innescare la catena di Sant’Antonio dei futuri complotti. Divenuto adolescente, il nostro Simonino viene irriso da una bella ragazza del ghetto torinese abolito nel 1848 da re Carlo Alberto, e di certo ciò non giova al suo futuro rapporto con il sesso femminile. Da allora in poi riverserà solo sul cibo, parossisticamente, la sua energia sensuale.
Possiamo noi immedesimarci in un tale figuro, addirittura provare ambigua simpatia nei suoi confronti? Le manie e i pregiudizi di Simonino ci sono familiari perché hanno pervaso la mentalità corrente, si confondono con la parte cattiva di noi stessi. Detesteremo la sua spregiudicatezza di calligrafo disposto al falso contro chiunque faccia comodo al potente di turno (i gesuiti, i massoni, i repubblicani) e l’indifferenza al prossimo che ne farà un pluriomicida; ma proveremo commiserazione per la sua infelicità psicotica.
Umberto Eco si diverte, e ci diverte, facendolo incontrare a Parigi con un giovane dottore ebreo, Sigmund Freud, dispensatore di consigli terapeutici a base di ipnosi e cocaina, ignaro di rivolgersi a uno spione la cui personalità è ormai schizoide (lo perseguita come suo temibile alter ego l’abate Dalla Piccola); afflitta da smemoratezza, ma non da sensi di colpa. A quel punto Simonini è già un rottame d’uomo. Ha prestato i suoi bassi servigi a Cavour, infiltrandosi nella spedizione dei Mille in Sicilia per neutralizzare lo spirito repubblicano di Garibaldi. Ha tradito una nobile camicia rossa come Ippolito Nievo. Ha profittato di Alexandre Dumas e succhiato le prime fantasie complottiste dai suoi romanzi, come dai feuilleton di Emile Sue. E’ in grado di profittare nel doppio gioco di ogni servizio segreto bisognoso di prove contro il “nemico occulto” del momento, intrufolandosi nelle fogne di Parigi e nei salotti letterari, alternando la gastronomia più raffinata al vomito. Mai sazio del denaro, perennemente impaurito, attraverserà i regimi e i moti popolari come la Comune del 1871, le sette religiose o massoniche, i servizi piemontesi, francesi, prussiani, russi, con totale indifferenza. Sempre confidando, però, di mettere a frutto la sua fobia antiebraica: custodisce come un tesoro la formidabile invenzione del raduno al cimitero di Praga. Possibile che fra i tanti intrighi riguardanti i gesuiti e i massoni, le potenze belligeranti che si scambiano false informazioni, l’avvisaglia della cospirazione comunista orchestrata non a caso da un ebreo di nome Marx, non si trovi nessuno interessato a prendersela con il popolo maledetto, desideroso solo –come gli spiegava il nonno- di conquistare il mondo?
Ne incontrerà fin troppi, di suoi simili, edificatori più o meno consapevoli dell’antisemitismo moderno. Da Maurice Joly a Hermann Goedsche, fino al celebre Edouard Drumont, passando per il socialista Alphonse Toussenel. Simonino Simonini ci accompagna così nella conoscenza di un passaggio cruciale dell’Ottocento, quando l’ebreo smette di essere soltanto un deicida reietto, meritevole quindi della discriminazione che subisce da secoli; per diventare un essere temibile, vuoi come incarnazione della finanza cosmopolita, vuoi come rivoluzionario sovversivo.
Un ottimo saggio di Michele Batini (Il socialismo degli imbecilli, Bollati Boringhieri), di recente pubblicazione, ci aiuta ad apprezzare il rigore storico del romanzo di Eco, in cui questi figuri assumono vivida fisionomia. Grazie anche alle illustrazioni didascaliche che l’autore ha recuperato nella sua collezione privata. Si rubano l’un l’altro il materiale, razzolano nel fango e ne traggono guadagni, ben felici di incendiare anime sprovvedute.
Consegnando all’agente russo Golovinskij l’ultimo falso, che finirà dritto nei “Protocolli dei Savi di Sion”, Simonini si compiace di mettere in bocca a un rabbino la profezia devastante: “Determineremo una crisi economica universale con tutti i mezzi clandestini possibili coll’aiuto dell’oro, che è nelle nostre mani”. Fomenta la prossima soluzione finale, dopo aver già compilato di suo pugno le lettere costate l’esilio all’Isola del Diavolo del capitano Alfred Dreyfus.
A cosa serve tutto questo? Glielo aveva spiegato di persona Rakowsky, un responsabile dell’Ochrana, cioè i servizi segreti dello zar: “La divina provvidenza ce li ha dati, usiamoli, perdio, e preghiamo perché ci sia sempre qualche ebreo da temere e da odiare”.
Incapace di nutrire sentimenti diversi da “un ombroso amor di sé”, Simonino Simonini, “maestro del riciclo”, impersona un’ossessione che ad ogni pagina Eco ci aiuta a riconoscere attualissima. Magari rivolta ad altre minoranze, dopo lo sterminio degli ebrei, ma sempre la stessa.
Non stupisce che nella postilla al suo romanzo, un’opera destinata a diventare un classico, Umberto Eco si corregga: “Ripensandoci bene, anche Simonino Simonini, benché effetto di un collage, per cui gli sono state attribuite cose fatte in realtà da persone diverse, è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi”.

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