Giornalisti di destra senza la tv?

mercoledì, 17 novembre 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
L’attenzione spasmodica dedicata dai giornali di destra alla critica dei talk show politici che vanno in onda sulle varie televisioni italiane, rivela ormai un malizioso gioco delle parti.
Così com’è palese che Marco Travaglio e Niccolò Ghedini simpatizzano, dopo aver stretto un vantaggioso patto di belligeranza, altrettanto chiaro è il doppio gioco dei vari Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, Nicola Porro (più altri meno assidui) ospiti fissi nelle trasmissioni che attaccano. In genere sparano d’anticipo titoli di fuoco sull’”Annozero” cui parteciperanno successivamente come temerari incursori in territorio nemico. Con l’effetto di calamitare l’attenzione del loro pubblico sul detestabile “miliardario rosso” cui andranno a far visita, contribuendo a trasformarlo in recordman degli ascolti, per poi dichiarare che a una simile Rai non bisognerebbe pagare il canone. Già durante la diretta (cui partecipano entusiasticamente), nelle loro redazioni zelanti cronisti sono incaricati di stendere resoconti indignati, che l’indomani mattina occupano pagine e pagine del “Giornale” e di “Libero”. Ventiquattrore dopo saranno gli stessi direttori, reduci dalla pugna, a editorialeggiare per il terzo giorno di fila su quelle due ore di tv. E avanti così, che ci viene da ridere.
Il reciproco vantaggio è evidente. Perché stupirsi, del resto? Alcuni protagonisti di queste battaglie provengono dalla medesima scuola giornalistica. Marco Travaglio, Luca Telese e Peter Gomez, solo per fare tre nomi, non a caso provengono dalla scuola del giornalismo di destra prima di diventare punti di riferimento dell’antiberlusconismo.
Nel mirino, da ultimo, e con particolare veemenza, è finita la trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano: non escludo che ciò dipenda anche dal fatto che questa coppia vincente non pratica l’ospitalità degli avversari-guastatori nel suo studio, rifiutando il contraddittorio che impazza altrove. E che prevede la seguente regola non scritta: per avere successo nella televisione italiana una trasmissione politica deve prevedere giornalisti di sinistra in veste di conduttori e giornalisti di destra seduti in studio a contestarli. L’inverso, accidenti, non ha mai funzionato.
A questo gioco delle parti non partecipano altri due campioni del giornalismo di destra che hanno con la televisione un rapporto più tormentato. Giuliano Ferrara ha abbandonato la tenzone dopo aver dato vita a trasmissioni di buona qualità ma decisamente minoritarie. Vittorio Feltri, invece, ha sperimentato negli anni scorsi qualche duetto con il compianto Sandro Curzi, ma senza buoni risultati. Ogni tanto fa pure lui l’ospite in collegamento, o si fa intervistare da solista, ma è chiaro che la tv non è il suo media preferito e se ne resta in disparte. Anche se prevedo che non disdegnerà di fare delle comparsate a partire dal 24 novembre, quando dovrà promuovere un suo libro in uscita.
Da tempo si discetta sul perché il giornalismo di destra, che ha inventato un linguaggio aggressivo redditizio sulla carta stampata, non riesce a sfondare nella forma del talk show televisivo. Ci hanno provato Antonio Socci, poi Giovanni Masotti e tuttora ci prova Gianluigi Paragone, ma con risultati poco incisivi. Spesso i giornalisti di destra funzionano meglio in tv dei loro politici di riferimento, ma sempre e solo nella veste di ospiti. Quasi che sapessero solo obbiettare, denunciare, interrompere, presentarsi come vittime, ma non sviluppare un racconto convincente della realtà. Perfino quando guidano dei telegiornali, come Emilio Fede e Augusto Minzolini, gli ascolti lasciano a desiderare. Che siano solo dei propagandisti, dei portatori d’ideologia?

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