Belém e la cultura dei cinepanettoni

mercoledì, 15 dicembre 2010

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Nel giugno scorso, nel corso di un affollato meeting all’Università Statale di Milano, ho avuto l’onore di ricevere dalle mani di Emma Bonino un premio del Comitato «Pari e dispare» per le trasmissioni televisive dedicate all’abuso postribolare e/o ornamentale del corpo della donna. C’era Lorella Zanardo, protagonista della più efficace campagna di denuncia contro questa retrograda sottocultura italiana, e c’era pure Caterina Soffici, autrice del libro Ma le donne no (Feltrinelli). Ricordo di essere rimasto interdetto quando la Soffici propose addirittura il boicottaggio della Tim per via delle pose lascive di Belén Rodríguez nelle sue inserzioni pubblicitarie: «Sono entrata in un negozio perché avevo bisogno di una chiavetta per il mio pc. Dietro al commesso ho visto Belén sdraiata che mi ammiccava e ho deciso di uscire e comprare la chiavetta dalla concorrenza».

Francamente ho trovato esagerata l’indignazione della Soffici, e non credo che ciò dipenda solo dal fatto che da quasi dieci anni lavoro con soddisfazione per il gruppo Telecom Italia. Mi sono chiesto anche se la mia perplessità (maschile?) fosse solo la riprova che Belén è molto attraente come icona della bellezza femminile: non riesco a non apprezzarla anche quando, in pantaloncini corti, tira il calcio d’inizio alle partite della mia povera Inter (incrociamo le dita, almeno per il mondiale!). Tra le colpe che attribuisco alla dilagante misoginia italiota c’è in effetti lo snaturamento volgare della nostra legittima pulsione erotica, la mortificazione del nostro immaginario sessuale: mica dovremo trasformarci tutti quanti in bacchettoni per colpa di una classe dirigente di puttanieri?
No, lo confermo, non mi assocerò a una campagna puritana di boicottaggio della povera, simpatica Belén, tanto più ora che si pretende di addebitarle il calo delle vendite dei prodotti Tim. Ma va’ là, chi ci crede davvero alle famiglie benpensanti che modificano le proprie scelte d’acquisto per colpa della peccaminosa ragazza argentina che ci stuzzica dappertutto? Come dicono a Torino: «Esageruma nen!».

Temo piuttosto che quei furbacchioni dei creativi pubblicitari vogliano addebitare a Belén quella che definirei la loro «sindrome da cinepanettone». Una sindrome mercantile che affligge gli spacciatori di desideri soprattutto nel periodo prenatalizio, quando escono nelle sale delle pellicole campionesse d’incasso che attirano un vasto pubblico, creando l’equivoco che la loro grossolanità corrisponda al gusto medio degli spettatori. È il solito equivoco dell’Italia spaccata in due. C’è cascato forse anche uno scrittore di talento come Francesco Piccolo, quando racconta il suo disagio di fronte alla visione di uno di questi film: tutta la platea rideva mentre lui non ci riusciva, si annoiava, e si sentiva triste perché diverso, isolato. Dimenticando che, per quanto successo possano avere i cinepanettoni, la grande maggioranza degli italiani ne fa volentieri a meno senza bisogno di essere malinconici intellettuali.
Con tutto il rispetto per le ricerche di marketing, mi sono abituato a diffidare da certi pseudo esperti del gusto di massa, conoscitori fasulli del grande pubblico che descrivono sempre molto peggiore di quello che è. Come dimostra il progressivo degrado dei programmi televisivi di largo ascolto, cui non corrisponde un incremento dell’audience.

Meglio riconoscere che la sensualità e la grazia di Belén potevano essere ben altrimenti impiegate da questi opinion maker abituati a vedere il consumatore come un imbecille, maldestri nel supplire alla loro scarsa fantasia con la malsana pretesa che il prodotto si vende inseguendo i nostri difetti. Inadeguati saranno loro, troppo comodo prendersela con Belén.

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