Così ho imparato a amare l’Italia

venerdì, 17 dicembre 2010

Questa testimonianza mi è stata richiesta dalla rivista “Caffeina” diretta da Filippo Rossi.
Caffeina mi chiede come vivo la mia italianità e il pensiero corre subito alla meravigliosa, indimenticabile Ada Fiecchi. Chi sarà mai? E’ la mia maestra della scuola elementare pubblica Leonardo da Vinci, che ho cominciato a frequentare nel 1960 a Milano, tre anni dopo aver lasciato la nativa Beirut. La scuola (che fino all’anno scorso ha frequentato pure mio figlio Giacomo) è un bell’edificio del 1933 caratterizzato da forti richiami iconografici alla Grande Guerra. Nell’atrio campeggia una lapide col proclama vittorioso del 24 maggio 1918, circondato da scritte che ricordano il Piave e il Monte Grappa. Moti patriottici si trovano perfino sui vasi di terracotta posti sul davanzale di tutte le aule, ciascuna delle quali è intitolata a un caduto.
Quando suonava la campanella all’inizio delle lezioni, scattavamo in piedi all’ingresso della maestra che richiamava gli alunni a farsi il segno della croce prima di recitare in coro il Padre Nostro e l’Ave Maria. Io rimanevo immobile sull’attenti, non partecipando alla preghiera. Ma quello che avrei potuto vivere come un momento di esclusione fu risolto ben presto da Ada Fiecchi in una speciale premura di coinvolgimento. Già l’anno successivo aderivo entusiasticamente ai festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia. Garibaldi, Mazzini, i fratelli Pisacane, re Vittorio Emanuele II, erano divenuti i miei eroi. Cosa volete che importasse se i miei genitori avevano solo un titolo di viaggio per apolidi, anziché un passaporto, quando io potevo sentirmi a tutti gli effetti partecipe di una comunità ospitale?
A casa si continuava a in ebraico, papà e mamma tra di loro dialogavano (e litigavano) in un francese infarcito di parole arabe, ma l’italiano s’impose rapidamente anche grazie al contributo di noi bambini frequentatori di una scuola in cui si imparavano a memoria poesie bellissime, da recitare la sera in un salotto ancora privo di televisione.
Mi rendo conto che allora era tutto più semplice. Di alunni stranieri in classe c’ero solo io. Ma ho l’impressione che anche i miei compagni arrivati poco tempo prima dalla Puglia, dalla Sicilia, dalla Calabria con l’italiano non se la cavassero al meglio; e pure in tante case venete e lombarde la lingua di Dante risultasse estranea, costringendo la maestra Fiecchi a sforzi educativi in cui profuse una generosità e una cultura ammirevoli. Ci appassionò e ci riunì. Fece di noi degli italiani e ci fece amare la nostra patria comune. Gliene sarò grato finché campo, alla faccia dei burocrati che bloccarono la formalizzazione della mia acquisita, ovvia italianità fino al 1987, quando ormai esercitavo da tempo la professione giornalistica. Se non avessi sposato una cittadina italiana, forse sarei invecchiato privo di cittadinanza così come sono nato. Ma non per questo sarei stato meno italiano.
Sarà davvero tanto più complicata la didattica nelle classi della scuola primaria del terzo millennio, popolate in gran numero da figli di immigrati stranieri? Sinceramente ne dubito, tanto è vero che silenziosamente, senza adeguati supporti e anzi in un clima ideologicamente ostile, migliaia di eroiche Ada Fiecchi proseguono ancor oggi l’umile ma prezioso lavoro dell’integrazione.
Gli anni del liceo, poi, furono così contraddistinti dalla pulsione egualitaria a riconoscerci parte di un destino comune (mi spiace, ma per me l’“egualitarismo” resta una nobile aspirazione, in barba a chi la denigra) che ben di rado poteva costituire un problema l’essere nato in una terra lontana, o il professare un’altra religione. Certo, avevo un nome “strano” di cui talvolta mi veniva chiesta l’origine. Ma niente più. Non eravamo certo tutti uguali, ma non ci saremmo mai sognati di dividerci per appartenenze territoriali, etniche e confessionali (spesso manipolate o inventate) come purtroppo è accaduto in seguito.
Mentirei se dichiarassi un’italianità “assoluta”, a prescindere dai miei legami familiari con Israele, dal mio amore per il Libano, dal richiamo originario del mondo yiddish perduto in Europa dell’est. Amos Oz racconta che i suoi genitori si consideravano europei nell’epoca in cui le appartenenze patriottiche escludevano una tale dimensione. Anch’io oggi non potrei sentirmi italiano se non mi sentissi altrettanto europeo, un europeo peraltro legato alla sponda sud del Mediterraneo. Sarà un’italianità anomala? Non più di certi miei concittadini che amano considerarsi anzitutto celti, padani, siculi o veneti. Io quando sento “Fratelli d’Italia” mi commuovo; io all’Italia voglio bene davvero.

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