Ruby e le altre: dietro a quei finti sorrisi

mercoledì, 19 gennaio 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Karima El Mahroug, nome d’arte Ruby Rubacuori, nata povera in un paese marocchino dalle parti di Marrakesh il 1 novembre 1992, quando sua madre Sahara aveva vent’anni ma era già sposata dall’età di undici, cioè da bambina, è una figura tragica. Una derelitta, una proletaria spaesata anche quando la fotografano, le lunghe cosce in vista, mentre scende da una Ferrari.
La sua breve vita, così come la raccontano i verbali delle questure e l’intervista a cuore aperto rilasciata a “Vanity Fair”, suscita disagio per l’infelicità che ne promana. Il confine giuridico della sua minore età anagrafica potrà forse risultare letale per il destino politico di Silvio Berlusconi (ne dubito), ma si tratta solo di una formalità. Come per molte altre donne della sua terra nordafricana –scossa oggi da moti popolari di rivolta e disperazione- già l’infanzia l’ha messa di fronte a un’imposizione brutale: fatti usare da femmina sottomessa, se vuoi sopravvivere. Consegnati ad altri uomini, se tuo padre non ti aggrada. Dimostra loro, con il tuo corpo, che la tua data di nascita è un dettaglio trascurabile.
Ogni storia è una vicissitudine diversa, ma tutte le donne che hanno descritto il reclutamento cui si sono sottoposte per accedere alle feste del premier (deve essere molto tollerante la sua nuova fidanzata!), da Patrizia D’Addario a Nadia Macrì fino a Karima El Mahroug, senza dimenticare la prima minorenne salita alla ribalta, Noemi Letizia, sono accomunate da biografie difficili, famiglie lacerate, sopravvivenza economica precaria.
Sono le appariscenti testimoni di un universo femminile assai vasto nel quale imperversa la piaga della prostituzione. Laddove il potente si può permettere anche l’ipocrisia di non pagarle direttamente, ma per interposta persona; e peggio ancora si vanta di aiutarle con generosità quando le attira con denaro a soddisfare la sua voglia di compagnia giovanile.
Il residence di via Olgettina 65 a Milano, dove un incaricato di Berlusconi (il cui ufficio non è stato possibile perquisire in quanto “segreteria politica” del primo ministro!) provvede ad alloggiare le favorite –e dove Karima invano chiese di essere ospitata- richiama troppo facilmente l’harem da cui le mogli venivano convocate nel palazzo del sultano, per la selezione di una sera. Le buste gonfie di banconote da cinquecento euro, i gioielli e gli abiti griffati favoriscono l’equivoco secondo cui queste favorite sarebbero delle privilegiate, meritevoli solo di venire additate per la loro spregiudicatezza.
Ma come non accorgersi che queste sciagurate col finto sorriso dipinto sulle labbra rappresentano l’avanguardia simbolica di un’Italia dove il mercimonio del corpo femminile viene legittimato dall’alto?
Fingiamo di essere imbecilli e prendiamo per buona la versione di Berlusconi: il denaro distribuito alle ragazze non sarebbe un pagamento di prestazioni ma un dono, e se per caso è finito a letto con qualcuna di loro pagata da altri, ciò avveniva in violazione della sua buona fede perché lui non frequenta prostitute; e se poi mette a disposizione degli appartamenti per dare un tetto alle bisognose, chiamatela buona azione, non un reato.
D’accordo, beviamocele tutte. Ma perché stupirsi poi se siamo diventati un paese in cui le ragazze povere si sentono incoraggiate a vendersi? E noi, vigliacchi, ci permettiamo anche di disprezzare queste infelici di cui potremmo essere padri e nonni.

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