Evviva l’Italia di Mari, giovane e ribelle

martedì, 25 gennaio 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Voglio condividere con voi la gioia di una lettura italiana, in questi giorni di bruttura e volgarità incombenti sul nostro paese. Violando le più elementari regole della critica letteraria, dichiaro subito che vi raccomanderò entusiasticamente “Troppo umana speranza” (Feltrinelli editore), il romanzo d’esordio di Alessandro Mari, senza neppure aver finito di leggerlo. Né accamperò quale attenuante la sua lunghezza, settecentocinquanta divorabilissime pagine, perché lo faccio apposta a godermelo pian pianino, questo racconto ottocentesco che mi trasporta fra la pianura lombarda in cui è nato l’autore (bustocco, cioè di Busto Arsizio) e Milano, Roma, Genova, l’Uruguay garibaldino, la Londra mazziniana, in un tripudio di poetica, generosa vitalità. Quando l’avrò finito, temo presto, mi dispiacerà. E sarà sempre troppo tardi per dirvelo che finalmente questo Mari, a me peraltro del tutto sconosciuto, ha dispiegato l’energia giovanile creativa per farci amare una patria religiosa e carnale, appassionata e protesa al futuro come i suoi indimenticabili protagonisti, vissuti nei decenni che precedettero l’unificazione della penisola nel Regno d’Italia.
Colombino, l’ingenuo e perciò geniale figlio di nessuno lombardo che sparge il letame benedetto dal parroco don Sante e ama sino alla follia la sua Vittorina dagli occhi bovini. Senza dimenticare il fedele mulo di lui, Astolfo. Leda, irpina sensuale capace di sopravvivere fra i cospiratori e i reazionari nelle metropoli a lei straniere. Lisander il pittore arrivista della congrega meneghina dei romantici di sbieco, innamorato della sua prostituta Chiarella ma ancor più dei nuovi commerci occasionati dalla dagherrotipia. La procace Anita in grado di far perdere la testa a un donnaiolo come Giuseppe Garibaldi; e l’austero Maestro cui tutti si rivolgono con venerazione in una Londra derelitta popolata di orfanelli italiani: Giuseppe Mazzini…
La galleria potrebbe continuare a lungo, ricca com’è di personaggi minori ma variopinti. A differenza del bel film di Mario Martone, “Noi credevamo”, che descrive i carbonari e gli affiliati della “Giovane Italia” per quel che probabilmente in effetti furono, cioè una ristretta minoranza settaria, Alessandro Mari aderisce con benevolenza alle pieghe di quella società arcaica in via di modernizzazione. Nelle locande e nelle fattorie di campagna, ma pure tra i vicoli cittadini infestati di marmaglia pezzente, e nelle caserme in cui venivano repressi i moti rivoluzionari, tu lettore percepisci davvero che una nazione popolare sta comunque nascendo. I futuri italiani sono tutti giovanissimi, pieni di speranze, incappano per caso nelle affiliazioni risorgimentali ma trovano ospitalità e confidenza ben oltre il confine obsoleto dei dialetti.
Centocinquant’anni dopo il fatidico 1861, le storie parallele di quei ventenni nati stranieri l’uno all’altro, ma i cui destini s’incrociarono per via della troppo umana speranza che dà il titolo al romanzo, danno luogo a un’epopea comune. E Alessandro Mari può permettersi il lusso di sfoderare un italiano classico, cioè di vocabolario forbito e sintassi armoniosa, capace di ornarsi degli idiomi locali eppure modernissimo.
Libro da raccomandarsi ai leghisti nativi dei medesimi luoghi del bustocco Mari. E a tutti noi che amando l’Italia vogliamo festeggiarne il prossimo compleanno pure con tanto sesso giovanile –perché no?- e col ricordo della miseria –c’era- ma ben lungi dall’attuale corruzione degli animi.

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