Che vergogna i teorici della “democra-tura”

martedì, 1 febbraio 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
La rivoluzione è dei giovani: l’età media degli 80 milioni di egiziani è 24 anni! Ciò che spiega forse perché scarseggi lo spirito di rivolta fra i 60 milioni di italiani, la cui età media è di 44 anni, ovvero un ventennio sul groppone in più cadauno.
Li guardiamo dall’alto in basso –sponda nord versus sponda sud del medesimo piccolo mare- con la paura di chi finora aveva fatto il tifo per i loro presidenti-tiranni, considerando la piazza araba alla stregua di una minaccia barbarica. Ci tranquillizzava sapere che un tale Ben Ali governasse anche per noi la Tunisia da 23 anni; così come il vecchio Mubarak sovrintendeva all’Egitto da 30 anni; mentre l’eterno Gheddafi comanda in Libia da 42 anni; al punto da far apparire un novizio Bouteflika, il presidente dell’Algeria che gestisce il potere da “soli” 12 anni.
Ci vergogniamo ad ammetterlo, ma la democrazia ci sembrava una forma di governo inadatta per quei popoli di colorito olivastro, e per giunta poveri, e come se non bastasse giovani. Se i loro rais garantissero lealtà all’occidente, vigilanza contro gli integralisti, un filtro all’esodo dei migranti verso le nostre coste, senza dimenticare i rifornimenti di gas e petrolio a prezzi decenti: perché mai dovrebbero interessarci le condizioni di vita e il rispetto dei diritti civili per quei popoli “inferiori”?
Scusate la brutalità, ma non fingiamo di ignorarlo. Quei dittatori che fino a ieri chiamavamo presidenti, ricevuti a Roma in pompa magna da tutto il nostro establishment riunito, magari con esibizioni apposite di gheddafine (versione export delle nostre veline), hanno goduto del nostro sostegno decisivo fino al giorno prima della loro deposizione a furor di popolo.
La nostra ignoranza sulle società arabe, ricoperta con i soliti luoghi comuni su una piazza sempre e comunque reazionaria perché dominata dai Fratelli Musulmani, ha subito nel gennaio 2011 una smentita colossale. Come già nel 1979 in Iran fu un moto popolare rivoluzionario a sbriciolare il regime filoccidentale –ma non era affatto scontato prevalesse in seguito l’oscurantismo degli ayatollah- così oggi la rivoluzione nordafricana ha caratteristiche aperte, laiche e di aspirazione alla libertà che noi dovremmo ammirare, sentire familiari. Certo, la sollevazione avviene in condizioni di miseria economica e penuria di lavoro tali da rendere disperati i suoi protagonisti. I numerosi suicidi di disoccupati, le torce umane che hanno incendiato ogni contrada della regione, nulla hanno a che fare con l’islam ma rivelano l’insostenibilità degli squilibri di reddito fra paesi limitrofi che contraddistingue il Mediterraneo. Pensare di contenere tali disuguaglianze col metodo della democra-tura, rubo la cinica espressione con cui Gianni De Michelis teorizzava il “giusto mix” fra democrazia e dittatura, si è rivelato fallimentare. Caduti i regimi comunisti nel 1989, perché analoga sorte non dovrebbe toccare agli oppressori di altri popoli a noi vicini? Non dipenderà anche dalla nostra amicizia prevenire le mosse degli integralisti?

Post Scriptum. Ho la sensazione che la protesta delle donne italiane offese nella loro dignità dai comportamenti privati e dalla cultura misogina del presidente del Consiglio, dopo anni di incertezza e disagio, stia finalmente estendendosi. E mi fa piacere notare che fra le più note promotrici della mobilitazione nazionale indetta per il prossimo 13 febbraio si trovano anche diverse personalità femminili che compaiono spesso sulla copertina di “Vanity Fair”. Sarà un caso?

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