Gheddafi è il sintomo del nostro razzismo

martedì, 22 febbraio 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Sarà poi così difficile per noi europei definire il colonnello Muammar Gheddafi per quello che è, ovvero un sanguinario dittatore? Perché noi “campioni” della democrazia liberale facciamo tanta fatica a dire, semplicemente, che dopo quasi 42 (quarantadue!) anni di potere ininterrotto Gheddafi deve rassegnare le dimissioni e magari essere sottoposto a giudizio per le numerose violazioni dei diritti umani di cui si è reso colpevole? Come facciamo a riempirci la bocca di parole come libertà, civiltà, rispetto se poi le masse dei giovani nordafricani in rivolta suscitano in noi piuttosto timore che solidarietà?
Non c’è realpolitik che possa ancora giustificare l’ignominia dei nostri governanti pappa e ciccia con Gheddafi, lì appostati in silenzio nell’attesa di schierarsi con il vincitore. Omuncoli senza principi ma soprattutto fifoni, ai quali il dittatore libico può rivolgere minacce di riapertura dei flussi migratori verso l’Europa, come se non avesse già ottenuto miliardi di finanziamenti per regolamentarli, e come se fosse moralmente tollerabile questo abuso cinico della povertà degli africani.
Bisogna essere onesti e riconoscere che prima di Berlusconi, cioè del premier cui dobbiamo l’esibizione parossistica di un sodalizio con Gheddafi prossimo al gemellaggio, con tanto di gheddafine e tenda piantata a Villa Pamphili, pure i governi di centrosinistra miravano al medesimo rapporto privilegiato. Disposti a chiudere entrambi gli occhi sulla repressione praticata dai rais arabi, delegando loro il contenimento dell’islamismo radicale assunto come unica alternativa possibile alla loro dominazione. Sì, perché noi per primi abbiamo rifiutato di prendere in considerazione l’eventualità che le popolazioni del Sud Mediterraneo fossero “mature” per la democrazia. Roba troppo sofisticata per chi non sia nato in Europa, in America o in Australia?
Scrivo questa vana invettiva senza sapere se i morti ammazzati di Bengasi e di Tripoli stiano aprendo la via libica alla caduta di Gheddafi, data fino a ieri per improbabile da esperti che peraltro non avrebbero scommesso un centesimo neppure sulle dimissioni del tunisino Ben Ali e dell’egiziano Mubarak.
Alcuni punti fermi però mi sono chiari. Primo: l’establishment italiano che ha intrecciato il suo business con Gheddafi (Finmeccanica, Impregilo, Fiat, Eni, Unicredit solo per citare i big) rischia un meritatissimo danno economico come ricompensa alla loro miopia. Secondo: gli Usa di Obama hanno dimostrato una visione strategica e una prontezza di riflessi nel riconoscere il buon diritto di chi è sceso in piazza per la libertà nel mondo arabo; ciò che l’Europa, e tanto meno l’Italia, non hanno saputo fare. Terzo: la pletora dei teorici del “conflitto di civiltà”, secondo cui la “piazza araba” sarebbe per sua natura retrograda, oscurantista, capace solo di bruciare bandiere israeliane e statunitensi, non ha saputo riconoscere la novità di una generazione cresciuta povera ma interconnessa grazie ai social network, comunque libera rispetto al dominio esercitato fino a ieri dall’islamismo nelle università.
Non escludo naturalmente che l’esito della caduta del Muro del mondo arabo sia un rafforzamento del potere degli integralisti. Ma faccio notare che l’Italia e l’Europa non stanno facendo nulla per impedirlo. Dovremmo far sentire a chi lotta per la libertà che siamo al suo fianco. Invece gli comunichiamo solo che abbiamo paura di vederli attraversare il mare. Dovremmo pretendere l’allontanamento di Gheddafi e degli altri dittatori. Invece restiamo in timorosa attesa, non sia mai che il colonnello se la cavi un’altra volta.

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