Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Volano botte da orbi al vertice di un’economia nazionale abituata a rivolgersi a santi protettori quando gli affari vanno male. E comunque a prescindere da successi e insuccessi aziendali quale metro di valutazione delle proprie carriere.
Peggio di tutti sembra messo Cesare Geronzi, l’anziano banchiere approdato alla presidenza delle Assicurazioni Generali. Oggi sono talmente numerosi coloro che lo additano come simbolo di un anacronistico connubio fra politica e finanza –con speciale foga Diego Della Valle, veterano pure lui dei medesimi patti di sindacato bazzicati dal rivale- da farmi venire voglia di desistere nelle critiche da me rivoltegli in tempi non sospetti, quand’era un intoccabile. Purtroppo succede così, i nodi vengono al pettine tutti in una volta. Nessuno aveva calcolato che l’uscita del film “Il Gioiellino” di Andrea Molaioli sul crack Parmalat, dov’è riconoscibilissimo Geronzi (ve lo consiglio, grandi attori e storia istruttiva) coincidesse con la richiesta di otto anni di carcere per il crack Cirio, risalente allo stesso periodo. Mentre l’establishment romano in cui Geronzi ha sempre nuotato come un pesce nell’acqua è turbato per un’inchiesta sul lobbysta Luigi Bisignani, vicinissimo a Gianni Letta, altro interlocutore fondamentale di Geronzi perché la loro influenza –spesso millantata o enfatizzata- si è perpetuata nei decenni fra le sedi governative e i cda bancari, passando per le anticamere vaticane e lubrificando con inserzioni pubblicitarie e buoni uffici stampa l’intero arco delle redazioni giornalistiche italiane.
Ma c’è un altro grande vecchio del potere italiano a non sentirsi tanto bene, in questi giorni. Si chiama Salvatore Ligresti e invano ha sperato che i soci francesi di Mediobanca provvedessero a suturarne l’emorragia di debiti. Perché appena giunto al vertice della Consob un ex sottosegretario molto legato a Giulio Tremonti, parlo di Giuseppe Vegas, ha pensato bene di puntargli uno scomodo faro addosso. L’antica regola non scritta per cui nessun invitato nel salotto buono del capitalismo italiano potesse essere lasciato fallire, se non altro perché tenutario di segreti inconfessabili sui partner chiamati a soccorrerlo, ha funzionato da ultimo per Marco Tronchetti Provera quando dovette lasciare il vertice Telecom. Ma oggi è troppo costosa per essere applicata sistematicamente. Ecco perchè tremano Geronzi e Ligresti, due grandi vecchi che s’illudevano bastasse il ruolo d’equilibrio al centro del sistema da loro conseguito negli anni trascorsi. Per quanto il sistema-Italia invecchi (figuriamoci che si autorappresenta come portavoce dei giovani un Della Valle ormai più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni), né Geronzi né Ligresti hanno l’autorevolezza di un vetusto timoniere come Enrico Cuccia. Questi conservò non senza spregiudicatezza fin oltre i novant’anni il ruolo di stratega del nostro capitalismo asfittico, rassegnato a “pesare” le azioni invece di “contare” le performance aziendali. Ma dalla sua aveva un pregio: non agiva per tornaconto personale; non si arricchì a spese dei risparmiatori come invece hanno fatto i succitati.
Come ciliegina sulla torta la settimana prossima assisteremo a una battaglia per il controllo della nuova Parmalat, molto ambita perché le transazioni giudiziarie del dopo crack l’hanno rifornita di una liquidità che si aggira intorno a 1,4 miliardi. Mentre le cordate trasversali dei palazzi romani (cui s’è aggiunta più famelica che mai la Lega di Bossi) si pestano i piedi nel tentativo di scalare i vertici pubblici di Eni, Enel, Finmeccanica; più quello privato di Telecom. Non stupitevi se poi l’economia italiana, quanto a dinamismo e incremento del Pil, resta la cenerentola dell’occidente.