Finisce il tempo dei politici provinciali

mercoledì, 16 marzo 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Il Giappone è, rispetto all’Italia, geograficamente più lontano della poverissima isola di Haiti, rasa al suolo nel gennaio 2010 da un terremoto che distrusse 250 mila vite umane. Eppure avvertiamo la catastrofe del Pacifico molto più vicina. Perché la concatenazione micidiale del sisma, dello tsunami e della radioattività sprigionatasi dalle centrali nucleari giapponesi, rimette in discussione il nostro modo di vivere. Cancella l’illusione di potercene restare al riparo dal resto del mondo che invece ci precipita in casa, come già la rivolta giovanile del mondo arabo che solo la miopia di una classe dirigente vecchia e provinciale poteva ridurre ai suoi meri effetti sul prezzo del petrolio e sui flussi migratori.
L’interconnessione planetaria che caratterizza questa nostra epoca mobilissima, ci costringe a misurarci con le grandi catastrofi così come con l’aleatorietà dei rifornimenti energetici, degli scambi commerciali e dei conflitti sociali. Non ci sono dighe che tengano.
Oggi proviamo ammirazione per l’antica capacità nipponica di vivere il cataclisma senza dare in escandescenze. Scopriamo quanto preziosa sia la filosofia della provvisorietà, il senso di una disciplina solidale generata dall’abitudine a convivere col terremoto. Ce ne deriva un insegnamento, a dimostrazione del fatto che la globalizzazione è anche continuo arricchimento culturale, non solo minaccia alle nostre abitudini.
Ma dopo i giorni della partecipazione al lutto e della costernazione, per quanto connaturato sia alla specie umana l’istinto della rimozione –soprattutto quando gli eventi si presentino sovrastanti le nostre forze- speriamo possa seguire un ripensamento complessivo delle regole falsamente considerate inesorabili dello sviluppo e della crescita.
Sebbene in misura inferiore rispetto al Giappone, anche l’Italia è una regione sismica del pianeta. Un terremoto di entità simile a quello dell’11 marzo 2011 è improbabile da noi. Ma ne basterebbero di forza inferiore per provocare danni ancora più gravi, come la storia ci rammenta. E allora cosa aspettiamo a dirottare risorse, da certe mastodontiche grandi opere come il ponte sullo stretto di Messina, a una vera pianificazione antisismica del territorio? Possiamo decentemente ritenere che le centrali nucleari pianificate dal governo (salvo poi assistere al fuggi fuggi delle regioni in cui dovrebbero sorgere), non comporterebbero un eccesso insopportabile di pericoli?
Quando i sommovimenti mondiali, che siano tellurici come in Giappone o sociali come nel più vicino Nordafrica, evidenziano l’usura del modello di sviluppo cui ci siamo pigramente consegnati –magari solo nella speranza di prolungare una condizione residuale di benessere- è allora che si misura il ruolo di una classe dirigente.
Tutto sarà da rinegoziare, nulla si può dare per scontato. Per questo mi spaventa l’idea che siamo guidati da leader orgogliosi di presentarsi come “gente del popolo”. Pronti a vantarsi della propria ignoranza per richiamarsi semmai alla tradizione e al senso comune. Diffidenti nei confronti degli intellettuali più ambiziosi che propongono di misurarsi con i grandi cambiamenti del pianeta.
Chiuderci in noi stessi mentre il mondo trema e ribolle, è un’illusione letale. Non riusciremo a isolarci nel rimpianto del bel tempo andato. Le onde sismiche provenienti dal Pacifico e il vento di libertà che Gheddafi ci propone di ignorare, sono il nostro futuro. Nel male, ma anche nel bene.

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