La rivoluzione araba e il coro degli scettici

martedì, 22 marzo 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Quando prende il via un’azione militare sono tali e tante le incognite che solo degli irresponsabili potrebbero aderirvi con entusiasmo. Ma c’è una differenza sostanziale fra l’invasione dell’Iraq pianificata otto anni fa da Bush con il sostegno di Blair, e l’attacco odierno alla Libia di Gheddafi intrapreso da un’altra coalizione occidentale. La differenza è che stavolta a muoversi per primi sono stati i popoli del Nordafrica e del Medio Oriente, in rivolta diffusa contro le dittature che li opprimono e li affamano. Si tratta di un movimento giovanile senza precedenti per vastità e coraggio in regioni del pianeta che erroneamente ritenevamo afflitte per sempre dall’oscurantismo.
Tuttora questa mia descrizione degli eventi viene accolta con scetticismo fra i benpensanti abituati all’idea che sulla sponda sud del Mediterraneo alligni solo il fanatismo religioso e la bramosia di emigrare per impossessarsi del nostro benessere. Ma ormai sono passati più di tre mesi da quel 17 dicembre 2010 in cui il giovane venditore ambulante laureato Muhammad Bouazizi si diede fuoco per protesta a Bin Arus, nel Sahara tunisino, scatenando una catena di eventi imprevedibili in un raggio di decine di migliaia di chilometri, grazie all’effetto propagatore dei social network.
Preferisco essere ingenuo e credere nella rivoluzione araba. Anche perché non è vero che nasce dal nulla o, peggio, da cospiratori rimasti nell’ombra. Le sue ragioni demografiche, sociali e culturali sono ben evidenti. C’era semmai da stupirsi che non fosse scoppiata prima. Solo che ora si tratta di favorirne un esito positivo, se si vuole davvero –per il bene loro e nostro- che la nascita di società aperte nel mondo arabo non resti una mera illusione. E allora, scusatemi, ma non si poteva concedere a Gheddafi l’indifferenza alla sorte di coloro che gli si sono ribellati. Quel raìs imbarazzante per i partner che ha collezionato (soprattutto in Italia) dominava la Libia dal 1969. L’effetto domino che ha già provocato la caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, non potrebbe decentemente risparmiarlo, quando il vento della libertà si è messo a soffiare perfino in Siria, in Arabia Saudita, giungendo a sconvolgere lo Yemen, il Bahrein e l’intera penisola arabica in cui pareva inconcepibile che la Mecca possa conciliarsi con la democrazia.
Sì, lo ripeto, preferisco essere ingenuo e constatare come l’Iran degli ayatollah, sicuro di essere il beneficiario della crisi di tanti regimi arabi sunniti, veda riproporsi al suo interno la medesima destabilizzazione libertaria.
Non mi stupisce perciò che un sarcastico pacifismo circoli oggi piuttosto nei circoli conservatori dell’occidente, indisponibili a credere nella rivoluzione araba sognata pure da Obama. Da loro giungeranno le obiezioni comparative: perché si mobilitano aerei e missili in Libia e non in altri paesi altrettanto oppressi da dittatori? Ne varrà la pena o resteremo un’altra volta incastrati in una trappola mortale?
Siamo abituati all’inverarsi dei pronostici più cupi, specie quando la parola passa alle armi. Figuriamoci dunque se possiamo liquidare con sufficienza le obiezioni all’offensiva in Libia, dentro la quale si manifesta anche un tentativo di rivalsa competitiva francese, profittando delle fresche compromissioni italiane con Gheddafi. Nulla però mi toglie dalla mente che impedire a Gheddafi di schiacciare la rivolta sia il primo passo per rimettere anche noi occidentali in sintonia con un progresso storico di cui beneficeremo assieme.

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