La Pasqua ebraica e i faraoni nostrani

mercoledì, 20 aprile 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Il mio numeroso branco di familiari e amici ormai affezionati alla consuetudine di festeggiare la Pasqua ebraica viaggiando insieme in un luogo significativo, quest’anno è volato a Sarajevo. Che non è solo la bellissima capitale della Bosnia-Erzegovina ma anche la città martire di un’Europa incapace di memoria. Qui fra i minareti e le cupole di moschee, chiese cattoliche e ortodosse, sinagoghe convissute pacificamente nei secoli, fu tentato meno di vent’anni fa l’ultimo genocidio etnico per mano di un folle nazionalismo serbo, senza che il mondo ne avvertisse la scandalosa replica della furia razzista e nazionalsocialista.
Tra le viuzze, nel fragile ma raffinato mosaico esistenziale, mi sono sentito ricordare che per questi musulmani europei fu concepito lo stesso destino toccato mezzo secolo prima agli ebrei. Ci hanno condotti in visita al tesoro meglio custodito della città, la Haggadà di Sarajevo, cioè un prezioso codice miniato medievale utilizzato per celebrare appunto il seder di Pesach, cioè la cena pasquale in cui si rammemora e si celebra la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Evento attualissimo, ne converrete. A Sarajevo, rimasta ostaggio e dunque schiava dei vili che l’assediavano fino al 1995, te ne accorgi ancor di più.
Mi ero portato dietro, oltre che il pane azzimo, anche un fastidio prolungato, a Sarajevo. Da un mese almeno, difatti, sentivo ripetere da ministri del governo italiano che dovevamo stare in guardia perché dalla sponda Sud del Mediterraneo stava per scatenarsi un “Esodo biblico”. Perché provavo fastidio? Non solo per la palese esagerazione. Non solo perché citavano la Bibbia persone che di solito si dedicavano piuttosto alla greve irrisione di chi ne predica i messaggi di accoglienza, carità, giustizia. Ci ho messo un po’ a capirlo, ma il mio fastidio era dovuto proprio alla Pasqua che venivo a festeggiare a Sarajevo con il mio amato branco. Non era forse la festa dell’Esodo? Nella memoria non solo del mio popolo, ma dell’umanità intera, l’Esodo biblico non è forse un meraviglioso tragitto verso la libertà?
Purtroppo i vari ministri che hanno usato in senso dispregiativo, e minaccioso, la citazione dell’Esodo, non si rendevano conto di bestemmiare. Il rovesciamento di significato da essi perpetrato è però istruttivo, rivelatore. Avendo noi il dovere da millenni, un anno dopo l’altro, di vivere la liberazione dalla schiavitù d’Egitto come evento toccato alla nostra generazione; e dovendo quindi cercare e riconoscere oggi, e non soltanto ieri, chi siano gli schiavi, è illuminante scoprire nell’attualità dei veri e propri sostenitori dei faraoni. Chi ha paura dell’Esodo è perché si riconosce nei faraoni. Non a caso li sostiene e gli somiglia.
A Sarajevo mi hanno raggiunto le parole dell’arcivescovo milanese Dionigi Tettamanzi, vibranti di una logica acuminata: “Perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei Paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà”. Niente da aggiungere, se non gli auguri di buona Pasqua.

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