Leggi-spauracchio, una strategia perdente

venerdì, 29 aprile 2011

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Convinta fino a ieri di veleggiare trionfalmente, in sintonia con gli umori popolari e lo spirito dei tempi, la Lega d’un colpo s’imbatte nella maledizione della politica. Vent’anni dopo, non si può permettere di tornare all’opposizione. Ma l’abuso propagandistico dello strumento legislativo, adoperato come orpello simbolico a prescindere dalla sua funzionalità, quasi che le istituzioni potessero impregnarsi di stati d’animo, ora rivela platealmente i suoi limiti.
In poche settimane il popolo cui veniva promessa la salvaguardia dall’”invasione straniera” ha visto sbriciolarsi l’architrave normativo della xenofobia leghista. La partnership con il dittatore-amico Gheddafi ridotta a carta straccia; la pena detentiva per chi non ottempera al decreto di espulsione bocciata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Una sequenza inesorabile perché il vento della storia soffia in tutt’altra direzione, e la rendita parassitaria sugli effetti perduranti del terrorismo islamico non basta più a orientare la rotta, trascorso un decennio dall’11 settembre 2001.
Sta inceppandosi il meccanismo di accumulazione leghista: protesta e potere sono addendi che alla lunga non si sommano neppure dietro la maschera del populismo. Né si può governare un paese mediterraneo, grande e industrializzato come l’Italia, predicando la contrapposizione alle sue normative comunitarie (Ue) e alle sue alleanze militari (Nato).
Anche l’introduzione del reato di clandestinità per i migranti irregolari, legge approvata nel 2009, è un episodio tipico di questo abuso propagandistico della legislazione. Tale norma ha solo contribuito a intasare i tribunali. Altro che processo breve. Nessun vantaggio nella lotta al crimine deriva da questo allungamento delle istruttorie, solo oneri aggiuntivi per la macchina giudiziaria distratta dal perseguimento di reati più gravi. Nel frattempo, invece di sveltire le pratiche di espulsione, è subentrato l’obbligo di arresto replicato per migliaia di volte nei confronti degli stranieri espulsi inadempienti, con ingente spreco di spesa pubblica.
Tutto ciò venne fatto presente dall’Associazione nazionale dei magistrati prima del varo di norme che peraltro il Guardasigilli emanava malvolentieri, solo perché alla Lega non poteva dire di no. Per giustificare la necessità di introdurre il nuovo reato di clandestinità nei nostri codici, ad esempio, non potendo ammetterne la finalità meramente ideologica, il povero Angelino Alfano si arrampicò sui vetri: “Riteniamo che possa essere una misura di deterrenza forte che disincentivi l’ingresso di immigrati che vogliono essere clandestini”, dichiarò. Insomma, una minaccia in più che chissà come dovrebbe risuonare fino alle orecchie di persone che partono dai loro paesi per miseria o disperazione, convincendole che venire in Italia sarebbe troppo pericoloso. Argomento risibile, non concernesse la fatica di vivere toccata in sorte a tanti nostri simili.
Il ministro Maroni finge di non capire quando lamenta uno speciale accanimento della Corte di Giustizia europea ai danni dell’Italia. E’ per sua volontà, infatti, che il nostro Parlamento non ha ancora approvato la Direttiva comunitaria che regolamenta i rimpatri dei migranti irregolari solo dopo un vaglio accurato dei loro diritti: il contrario dei respingimenti sbrigativi, nel bel mezzo del Canale di Sicilia, che ci hanno procurato disonorevoli condanne internazionali. Sa benissimo, Maroni, che anche i paesi europei in cui vige il reato di clandestinità ottemperano al dovere dell’accoglienza dei profughi in misura di gran lunga superiore all’Italia. Hanno introdotto nella loro legislazione la Direttiva comunitaria. E soprattutto non brandiscono leggi-spauracchio, come ha fatto lui, pretendendo una pena sino a 4 anni di reclusione per i clandestini che non ottemperano al decreto di espulsione, anziché governare i flussi migratori. E’ difatti la mentalità della legge-spauracchio a subire la bocciatura della Corte di Lussemburgo. Evidenziando la differenza fra severità funzionale e cattivismo propagandistico.
Il leghista pretende di urlare pure quando legifera, ma nel frattempo è incapace di governare con efficienza. Guarda con invidia gli apparati statali dei nostri vicini europei, più severi del nostro nell’effettiva applicazione dei decreti di espulsione, ma ne ignora i percorsi d’integrazione e la cultura dei diritti umani.
La Lega che in questi giorni sta simulando le sue prove di crisi di governo, nell’attesa che giunga il momento propizio per sganciarsi da Berlusconi e ereditarne l’elettorato settentrionale, non prevedeva di trovarsi di fronte a un tale bivio strategico. Ha parlamentari in carica da tre o quattro legislature, e nuove leve che premono. Non può rinunciare alla sua vocazione di governo e sottogoverno, tramite fra Roma e la provincia. Ma i flussi dell’economia internazionale e i mutamenti in corso sulla sponda meridionale del Mediterraneo rivelano all’improvviso l’anacronismo del suo progetto isolazionista, di piccola patria. Può prendersela con gli arabi, con i cinesi, con i francesi. Può sparare minacce secessioniste dall’Unione europea o dall’Italia meridionale. Ma la sua protesta risuona come un mugugno dialettale minoritario, dal fiato sempre più corto.

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