Il Giusto di Moransengo

domenica, 1 maggio 2011

Domenica 8 maggio alle ore 10, nel piccolo comune di Moransengo (Asti), alla presenza dell’ambasciatore d’Israele, Gideon Meir, e di don Luigi Ciotti, avrà luogo la cerimonia con cui il parroco don Martino Michelone verrà insignito alla memoria con il titolo di “Giusto fra le Nazioni” rilasciato dallo Yad Vashem di Gerusalemme per avere nascosto e salvato, a rischio della sua vita, una famiglia ebraica durante gli anni delle persecuzioni razziali. A Luciano Segre, che in quegli anni terribili era un bambino e che domenica festeggeremo insieme al paese e a tanti amici, e al suo salvatore, ho dedicato nel 2008 questo articolo di “Vanity Fair” che vi ripropongo per la lieta occasione.

Sto per realizzare uno scoop straordinario e vorrei rendervi partecipi dell’evento che attendevo da anni. Sto per intervistare Luciano Segre, domenica 11 maggio alle ore 19 nella sinagoga di Casale Monferrato, senza dubbio la più bella d’Italia.
E chi sarà mai questo Luciano Segre, vi chiederete, un po’ insospettiti da quelle sopracciglia trasformate in cespugli, in mezzo a cui si diparte un naso…beh, sì, diciamolo, la riproduzione esatta del perfido giudeo così come veniva disegnato nelle caricature antisemite novecentesche? Fermatevi, certe battute siamo autorizzati a scambiarcele solo tra ebrei. Tanto più che Luciano Segre, nel nostro branco-famiglia-allargata cementato d’affetti non consanguinei, è investito dai ragazzi della funzione insostituibile di nonno (senza nulla togliere al plotone dei nonni naturali).
Ma allora dove sarebbe lo scoop? Presto detto: il riserbo di Luciano Segre è proverbiale. Calca da decenni i corridoi dell’establishment italiano da consulente di aziende importanti, è amico di quasi tutti i direttori di giornale, lui e il suo labrador sono avvistati spesso tra la Confindustria e Palazzo Chigi quando lasciano per poche ore la Torino ove convivono felicemente, senza trascurare un passaggio per la casa bolognese di Prodi o di questo e quel manager, ministro, banchiere che invano lo vorrebbero per consigliere: ma di lui non è mai uscita una mezza dichiarazione, e le sue prime fotografie pubblicate eccole in questa pagina. L’uomo è ruvido come la sua voce, acuita nei decibel dalla sordità incipiente e da un abuso smodato di parolacce con cui seduce i bambini e scandalizza gli adulti prima che si accorgano che di mostruoso in Segre c’è solo la smodata bontà: il contrario dell’involucro, come l’orco Shrek.
Se l’ho convinto a parlare in pubblico per la prima volta in vita sua, nell’ambito del bel Festival della cultura ebraica che si tiene ogni anno a Casale Monferrato (www.oyoyoy.it) è appunto perché ha passato da un po’ i settant’anni e vuole saldare un debito di gratitudine. Luciano Segre era infatti un bambino quando nel 1938 il fascismo varò le leggi razziali, facendone un diverso. Esattamente settant’anni fa. A Casale Monferrato pareva che la vita potesse continuare quasi normalmente intorno al negozio di tessuti gestito in via Roma dai suoi genitori. Ma con la Repubblica di Salò cominciarono anche le deportazioni, un ebreo denunciato e catturato poteva valere anche duemila lire dell’epoca. E allora fu la fuga. Prima a Cogne, finchè suo padre Riccardo aveva ancora dei risparmi da spendere. Poi il miracolo di arrivare in ritardo all’appuntamento con la famiglia Ovazza con cui avevano pianificato la fuga in Svizzera. Traditi e catturati all’Hotel Meina, gli Ovazza furono trucidati sul posto mentre i Segre continuavano la fuga a Castino, zona partigiana dove le retate si susseguivano, una famiglia ebraica rappresentava un impiccio ulteriore e a papà Riccardo s’infettò un polmone.
Qui subentra la figura del salvatore. Un semplice prete del Monferrato, cliente del negozio di tessuti: don Martino Michelone, parroco di Moransengo. E’ lui che alla fine del 1943 dice a Riccardo Segre fuggiasco, senza una lira in tasca, malato: “Prendi la tua famiglia e venite a nascondervi in canonica da me”.
Vivevano rinchiusi sopra la chiesa Riccardo, sua moglie Angela, sua sorella Elvira e il piccolo Luciano. Che essendo già pestifero di quel don Michelone ricorda soprattutto le mani grosse come badili. Scattavano a scappellargli la nuca quando sbagliava –lui piccolo ebreo clandestino- gli incarichi da chierichetto in cui veniva coinvolto dal prete. Furono sculacciate vere la volta che fece partire un colpo dal fucile di un partigiano, col rischio di attirare i nazisti. E se la ricorda ancora, Luciano Segre, la volta in cui i nazisti vennero davvero a prendere quel don Michelone, noto protettore di “banditi” e “sbandati”, scappato giù per il dirupo dietro la chiesa e rimasto alla macchia per giorni con l’aiuto dei suoi parrocchiani. Tra i medicinali paracadutati dagli inglesi, quel prete amico dei partigiani recuperò perfino della penicillina con cui fu curato il polmone di suo padre.
Finora queste storie Luciano le riservava agli amici, infarcendole di dettagli irriferibili e piegandole su un ridere amaro. Ma ora è venuto il tempo di tramandare il ricordo. Don Martino Michelone può e deve diventare, speriamo, dopo la necessaria verifica istruttoria, un Giusto d’Israele, ricordato come tale a Yad Vashem, il mausoleo della Shoah che su una collina di Gerusalemme dedica un albero a ciascuno degli angeli salvatori di ebrei in quegli anni bui.
I requisiti necessari per ottenere tale riconoscimento (alla memoria: don Michelone se n’è andato in tutta modestia nel 1979) sono tre.
Primo. Non avere preteso denaro per l’aiuto fornito.
Secondo. Avete rischiato la propria vita per salvare gli ebrei in fuga.
Terzo. Che vi sia più di un testimone della verità dei fatti.
A Moransengo, tra le vigne del Monferrato, tutti gli anziani ricordano e già il paese ha intitolato la piazza a don Michelone, il suo Giusto. Vorrei che insieme a Luciano Segre sia possibile aggiungere il nostro grazie.

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