Il mondo arabo volta pagina dopo Osama

mercoledì, 4 maggio 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
La morte di Osama Bin Laden segna la chiusura di un decennio contrassegnato dalla paura occidentale ma anche dal contemporaneo declino delle posizioni integraliste nel campo musulmano: nessuna importante nazione islamica è caduta preda dei terroristi alla Bin Laden, dopo la loro estromissione dall’Afghanistan.
E’ un bene che questo successo militare statunitense sia stato conseguito da un presidente come Obama, in grado di trarne consenso interno e utilizzarlo per proseguire il dialogo con il mondo arabo e l’islam, ben diversamente dal suo predecessore Bush.
Dopo Bin Laden, il terrorista, ora tocca ai dittatori. Anche ai dittatori che l’occidente definiva “moderati” e con i quali instaurava partnership privilegiate motivandole proprio con la necessità di fronteggiare il terrorismo islamico. Niente più alibi, adesso. Non sarà certo con blitz militari come quello vittoriosamente condotto in Pakistan da un commando Usa che si compirà il destino storico delle dittature nel mondo arabo. I dittatori cadono quando a muoversi sono i popoli oppressi. Ma è un ottimo auspicio che proprio ora, all’inizio di questo moto di liberazione dal Nordafrica al Levante, esca di scena sconfitto l’artefice dell’11 settembre 2001.
Ora dobbiamo cambiare mentalità. Non riesco neanche a concepire, per esempio, che il mio sostegno ai popoli arabi in lotta per la libertà, in Siria come in Libia, debba essere condizionato dai vantaggi o dagli svantaggi che ne deriverebbero a un luogo pure a me carissimo, Israele, dove vive gran parte della mia famiglia. Lo Stato ebraico verrebbe meno alla sua missione salvifica, storica e spirituale, qualora concepisse di fondarsi sulla schiavitù dei suoi vicini. Mi fanno tristezza i governanti israeliani (non tutti, per fortuna) che invitano Obama e l’America a sostenere i dittatori in carica, nel nome di un malinteso, miope interesse nazionale.
Certo, vedo anch’io Berlusconi e Bossi che litigano sulla guerra libica ma che, fosse per loro, manterrebbero in vigore il cinico trattato d’amicizia stipulato nel 2008 con Gheddafi; così come avrebbero lasciato in carica due dittatori come Ben Ali e Mubarak in Tunisia e in Egitto. Ma per l’appunto l’estensione, la durata e l’eroismo della rivolta araba cui stiamo assistendo, dovrebbe avere ormai chiarito al nostro establishment che deve, dobbiamo misurarci con un passaggio storico eccezionale. Un vasto moto di libertà che probabilmente necessiterà di anni per compiersi, e purtroppo di molto sangue versato, ma è inarrestabile e non può lasciarci indifferenti o ostili.
I giovani della sponda Sud del Mediterraneo sono disposti a morire pur di farla finita con i regimi che li opprimono. Per cultura, linguaggio e aspirazioni si rivelano molto più simili a noi di quanto saremmo stati disposti ad ammettere.
Regimi spietati come quello di Muammar Gheddafi in Libia e di Bashar al Assad in Siria sono divenuti antistorici, inaccettabili da una popolazione giovane, istruita, urbanizzata, informata, connessa col mondo occidentale. Relazioni privilegiate con questi dittatori, sulla pelle dei loro popoli, non sono più neanche convenienti, a parte il disonore.
Quando ci si chiede perché allora l’Onu abbia schierato truppe contro Gheddafi in Libia, ma non contro Assad in Siria, la risposta, credetemi, non è la più banale: perché in Libia c’è il petrolio. E’ molto più complicato. Gheddafi non è al centro di una rete di sostegno vasta e varia (Iran, Turchia, ma anche Arabia Saudita) come Damasco, capitale storica del mondo arabo. Dopo la fine di Bin Laden spero riacquistiamo una visione fiduciosa del domani.

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