Moratti-Pisapia, la sfida si gioca a Milano

mercoledì, 11 maggio 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Con calcolata perfidia Gabriele Albertini ha raccontato che quando si ricandidò sindaco di Milano per la seconda volta, nel 2001, spese in tutto quindici milioni di vecchie lire (ottomila euro) per la sua campagna elettorale. Riteneva, a torto o a ragione, che i risultati della sua amministrazione parlassero da soli. E conseguì una netta maggioranza assoluta senza bisogno di ricorrere al ballottaggio.
Chiaramente Albertini si diverte a confrontare la sua autorevolezza di ex, con l’impopolarità di colei che gli è succeduta: Letizia Moratti. La quale arranca e spende cifre imponenti (ma non dichiarate) per tappezzare Milano di un sorriso artificiale, nella speranza che il battage strabordante possa trascinarla oltre la soglia del 50% dei voti domenica e lunedì prossimi, risparmiandole il supplizio del ballottaggio con Giuliano Pisapia.
Con tutta la buona volontà, neppure i (tiepidi) sostenitori della Moratti riescono a presentare come esempio di buongoverno i primi cinque anni della sua amministrazione. Nel Pdl si era parlato apertamente di sostituirla con Maurizio Lupi. Mentre la Lega le ha fatto penare fino all’ultimo il suo appoggio, confidando di risultare decisiva a un suo successo non scontato e di rientrare quindi nel gioco politico milanese, in cui ha sempre pesato poco.
Caricare sulle spalle della povera Moratti quel che da tempo non funziona più nella politica milanese –dopo un ventennio di dominio incontrastato della destra- sarebbe una viltà; intrisa di riflessi misogini. Non è colpa della Moratti se il berlusconismo si frammenta in clan rivali; se Ligresti declina ma adopera La Russa come una clava; se Comunione e Liberazione gioca per sé; e l’affarismo della ‘ndrangheta s’è fatto troppo evidente. I cicli politici prima o poi finiscono anche quando sono prolungati, come il ventennio di Milano capitale della destra. Del resto Milano in precedenza fu laboratorio del centrosinistra e del socialismo riformista, anche se i giovani non possono certo saperlo.
Succede dunque che a mettere in affanno la Moratti sia un borghese di buona famiglia come lei, del quale è difficile negare il garbo. Solo che, a differenza dei vari sfidanti travolti nel passato dalla destra vittoriosa, Giuliano Pisapia è nello stesso tempo anche un dirigente politico della sinistra. Quindi recupera consensi fra i disillusi di una Milano popolare, periferica, lungamente rassegnati all’astensione. Sono trenta-quarantamila voti che da soli non basterebbero a Pisapia per raggiungere la maggioranza. A meno che…
A meno che la crisi di consenso della destra milanese, aggravata dalla scissione degli ex-berlusconiani promossa dal dinamico Manfredi Palmeri, non sia compensata dall’arrembaggio della Lega, e così trattenga sotto il 50% il voto per la Moratti. Pronostici e sondaggi segnalano uno scricchiolio che significherebbe ballottaggio.
Sinceramente mi chiedo a quale logica di marketing risponda la scelta di Berlusconi, candidatosi per dare man forte alla sindachessa debole, di battere ossessivamente sul tasto delle toghe rosse. Si vota per rinnovare il consiglio comunale, non il tribunale. Scopriremo forse lunedì 16 maggio che la mossa era sensata. Forse Milano non conserva alcuna memoria positiva della sferzata legalitaria di Mani Pulite. Ma se invece i milanesi si preoccupassero soprattutto degli intoppi municipali? Capita che le svolte politiche accadano per eterogenesi dei fini; magari solo perché il malgoverno cittadino si notava troppo. Una mancata vittoria della spendacciona Moratti a Milano non costituirebbe certo motivo sufficiente per indurre Berlusconi a dimettersi. Ma gli confermerebbe che stiamo vivendo un passaggio d’epoca. Proprio in casa sua.

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