Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
La notizia, a Milano, è che la Lega non sta facendo la campagna elettorale per il ballottaggio. Deve essere altrove, ma dove? I big si danno appuntamento nel fortino di via Bellerio, raggiungibile da Varese e Bergamo con la tangenziale nord, senza metter piede nella metropoli contesa dove nessuno di loro peraltro ha casa. Zero comparsate televisive. Zero comizi programmati. Solo cinque giorni dopo la breccia di Pisapia, il Carroccio fa atto di presenza appiccicando in giro dei manifesti-spauracchio su un’inverosimile Zingaropoli. Già gli appuntamenti centrali del 29 aprile e del 13 maggio scorsi, con un Bossi in tono minore e una Moratti in camicetta verde seta, avevano richiamato un pubblico inequivocabilmente scarso; confermando l’impressione che la reconquista di Palazzo Marino non fosse in cima alle aspirazioni del capo leghista. Come spiegare altrimenti la testa di lista rinunciataria affidata a un giovane come Matteo Salvini, certo popolare fra gli ascoltatori di “Radio Padania” per le sue sparate contro i rom “peggio dei topi”, ma ben lontano da un profilo amministrativo, di governo?
Vero è che dai tempi lontani di Marco Formentini (sindaco) e di Giancarlo Pagliarini (ministro del Bilancio) Milano non ha più avuto un dirigente leghista di rilievo nazionale. Proprio quest’ultimo, il vecchio Paglia, quando ha capito che Bossi accodava la Lega alla Moratti, gli ha fatto il dispetto di candidarsi sindaco con una lista autonoma. E ora, dopo aver goduto del voto disgiunto di almeno un migliaio di elettori leghisti, per il ballottaggio dice di aver già deciso: “La Moratti non è mica adatta a fare il sindaco”.
Se i big restano lontani, chiusi nella periferia di via Bellerio, chi presidia per conto di Bossi la Milano degli affari e dei danée? L’uomo a cui la Lega delegava la sua rappresentanza nell’establishment ambrosiano, il banchiere Massimo Ponzellini, all’indomani della scoppola elettorale s’è fatto vedere alla Scala per il concerto di Daniel Barenboim, mal rasato e faccia scura. Non sembra più nemmeno lui, forse perché la vigilanza di Mario Draghi sta creando un sacco di grane alla sua Banca Popolare di Milano. Aduso negli ultimi anni a ostentare la parentela col potente capo lumbard Giancarlo Giorgetti, ora il Ponzellini si affretta a dichiarare –ohibò- di non avere mai votato Lega. E con fatalismo soggiunge: “Quando il vento cambia, chiniamo la testa”.
Rinfoderato il sogno di orientare la prossima successione di Giuseppe Guzzetti al vertice della Fondazione Cariplo, i dirigenti leghisti racconteranno forse ai nipotini quella serata di gala al Castello Sforzesco, era il 2 ottobre 2009, quando i potenti li omaggiavano e il vicepresidente dell’Unicredit, Fabrizio Palenzona, commise perfino l’ingenuità di presentarsi in cravatta verde alla prima del kolossal “Barbarossa”. Chi se ne importa dello sperpero di denaro pubblico per la produzione del film, aggravato dal fiasco successivo ai botteghini: Milano pareva ai loro piedi. Tanto è vero che alle regionali del 2010 la Lega a Milano balzò al 14%. Un voto d’opinione che seppero valorizzare grazie a un luogo comune mai verificato: il mito del Carroccio unico partito di massa radicato sul territorio.
Davvero? Pochi mesi dopo la serata della Lega superpotente al Castello Sforzesco, febbraio 2010, scoppiava la rivolta degli immigrati nel quartiere di via Padova. Ma è proprio lì che verranno al pettine i nodi di un movimento nordista che ha dirottato su Roma i dirigenti più capaci, ignorando la crucialità di Milano. Oggi te lo dicono sottovoce: “Se avessimo candidato Roberto Maroni a Palazzo Marino, invece di metterlo a capo del Viminale…”. Fatto sta che drammatizzare le tensioni della società multietnica ha provocato una reazione ben diversa da quella attesa, fra i cittadini coinvolti in continue, inutili provocazioni. L’ultima, lo scorso Natale, quando un dissennato assessore comunale cercò di vietare le luminarie d’auguri scritti nelle varie lingue degli immigrati. Un sopruso cui si oppose lo stesso Matteo Salvini. L’offesa recata a quartieri difficili dove operano però numerosi soggetti impegnati nell’integrazione, ha finito per punire gli imprenditori della paura: nei seggi di via Padova, via Adriano, via dei Transiti la Lega ha subito un tracollo di voti. Così come nelle altre zone in cui ha esasperato lo scontro, intorno ai campi rom e ai centri sociali.
I risultati del voto comunale, con una flessione di quasi cinque punti percentuali rispetto alle regionali dell’anno scorso, confermano che la Lega a Milano è un partito d’opinione dall’elettorato molto fluttuante. Un’esigua minoranza. E’ vero che dispone di una base di militanti significativa, caratterizzata da un rapporto fideistico con i loro capi. A orientarli, però, è una potente ideologia, non un modello di governo amministrativo. “La base sta dove sto io”, si è vantato giovedì Umberto Bossi. Ma non a caso per limitare le defezioni e motivare i suoi a votare la detestata Moratti, deve far ricorso alle solite trivialità in stile “zingaropoli” della cosiddetta, famigerata “pancia leghista”. Col rischio di innescare un effetto perverso, sulle frequenze di “Radio Padania Libera”: l’emittente di via Bellerio, diretta da Matteo Salvini, che viene spacciata per termometro degli umori popolari. Trasmette sfoghi xenofobi e lamentele antiromane, alimentando l’equivoco di una Milano molto distante da quella reale. Col risultato di rendere impossibile alla Lega un’evoluzione moderata; tanto meno un rinnovamento dei suoi quadri milanesi, condannati all’agitazione e negati all’amministrazione. Irrimediabilmente minoritari. Quando poi la realpolitik impone di sostenere la Moratti o di schierarsi con Berlusconi contro i giudici, giocoforza il mugugno dilaga finché si spengono i microfoni e si censurano i blog.
La leggenda della “pancia leghista” spacciata per volontà popolare, diviene un racconto impossibile quando la realtà impone smentite evidenti: i costi e le tortuosità del federalismo; il crollo della diga anti-immigrati nel Mediterraneo; l’anacronismo delle proteste contro i festeggiamenti dell’Unità d’Italia. Milano è sensibilissima nel cogliere le novità della storia, dalla rivoluzione araba alla nuova politica americana. Per la prima volta la Lega avverte l’inadeguatezza del suo vocabolario, di più, la necessità di una revisione strategica.
Affiorano così, fra i militanti, le domande più scomode. Ma Bossi è ancora lucido? Perché dovremmo credere al talento politico del Trota e dei cortigiani? La lottizzazione delle cadreghe di sottogoverno non ci sta rendendo uguali agli altri partiti?
Per tacitare l’inquietudine, la risposta viene dilazionata al raduno di Pontida, domenica 19 giugno. Come se di nuovo il rito comunitario e il discorso del capo, suggellati da un giuramento, potessero miracolosamente infondere l’armonia perduta. Magari col favore della solitudine politica e dell’opposizione che fra i militanti esercitano un fascino nostalgico. Mentre i dirigenti sanno benissimo che lasciare il governo, dopo dieci anni quasi ininterrotti, sarebbe molto costoso.
Il vero trauma che sta vivendo la Lega non è la perdita di una Milano che mai è stata sua, dove si muove con disagio, distante dagli oligarchi Pdl e ancor più dalla sindaca miliardaria. No. La delusione cocente è scoprire che la decadenza di Berlusconi reca sventura anche ai suoi alleati. Berlusconi consuma, dissipa il suo patrimonio di consensi, non lo trasferisce.
Dal Castello Sforzesco a via Padova, risuona patetica quella voce rauca che da un quarto di secolo ripete “La Lega ce l’ha duro!”, esponendosi a crudeli verifiche. Gli vogliono bene, proteggono la sua vecchiaia. Ma Bossi sa di non poterli chiamare a raccolta in difesa della Moratti. La Lega è altrove.