Perchè la Siria mi riempie di speranza

mercoledì, 3 agosto 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
E’ struggente per me riconoscere nella sofferenza del popolo siriano le doglie che genereranno un nuovo Mediterraneo più armonioso; ma a che prezzo di sangue, mi chiedo, e quanto tempo ancora ci vorrà? Per andare dove, oltretutto, se ancora è così difficile immaginare una politica democratica che dia forma alle sacrosante aspirazioni di libertà degli arabi?
La Siria non mi lascia indifferente, per ragioni personali. E’ nella cosmopolita Aleppo che mio padre trascorse i suoi primi pacifici vent’anni, mentre attorno infuriavano guerre e massacri; più volte mi sono addentrato nel Golan occupato dagli israeliani fino a poche decine di chilometri dalla capitale Damasco, dove sogno di recarmi in visita sulla tomba del magico cabalista Chaim Vital, una specie di psicanalista seicentesco, tuttora venerata pure dai sufi islamici e dai mistici cristiani… Ma a conferma della coriacea impenetrabilità del regime siriano, neanche col mio bel passaporto italiano ci sono ancora riuscito a entrare da giornalista.
La sorte della Siria non lascia indifferente nessuno fra i conoscitori del Medio Oriente che, con argomenti diversi e molteplici, giungeranno tutti alla medesima constatazione: se crolla l’impalcatura feroce ma ben strutturata dalla minoranza etnico-confessionale degli alawiti, che la famiglia Assad ha saputo modernizzare da mezzo secolo all’ombra del principio della laicità dello Stato, a venir giù (felicemente) sarà l’equilibrio del terrore che magari conviene ai sauditi, agli iraniani e pure agli israeliani, ma incatena i siriani con i libanesi e tutti i popoli della regione.
I profeti di sventura (ne ho incontrati parecchi a Beirut, in particolare fra gli Hezbollah) sostengono che dopo l’ormai probabile caduta del tiranno Assad, sostenuto dalla minoranza alawita e, guarda un po’, anche dalle comunità cristiane siriache, sarà inevitabile il confronto sanguinoso tra le due correnti più numerose e agguerrite dell’islam, cioè i sunniti e gli sciiti. A me sembra, questa, l’ennesima fandonia ereditata dal macabro decennio post 11 settembre 2001. Questi giovani siriani disposti a rischiare la vita per la libertà, massacrati a cannonate eppure indomiti, perché la forza della disperazione prende la forma eroica della dignità, sono cittadini del mondo contemporaneo interconnesso, non miliziani oscurantisti fautori della legge islamica. Rimproverano all’occidente il cinismo che l’ha spinto a patteggiare con i dittatori per limitare il prezzo del petrolio e le minacce a Israele; ma condividono il nostro desiderio di libertà, ingiustamente a loro precluso.
Non possiamo indignarci per la furia reazionaria che massacra i ragazzi norvegesi a Utoya, e misconoscere l’Utopia cannoneggiata dai sicari di Assad. Noi italiani, che ci troviamo presi in mezzo fra i travagli dell’Europa nordica e le rivolte popolari del Mediterraneo -forse non a caso in balia della classe dirigente più mediocre e impotente che si ricordi- almeno dobbiamo sapere che il nostro benessere futuro non potrà prescindere dalla nascita di società aperte e dinamiche ai nostri confini meridionali.
Non mi spaventa constatare che la rivolta popolare si avvale della rete organizzativa delle moschee, particolarmente attiva nel mese festivo del Ramadan. La Siria del 2011 non somiglia in nulla all’Iran rivoluzionario che nel 1979 si consegnò al regime degli ayatollah. Chi adopera il passato come spauracchio, ignora che il nuovo baricentro mondiale della lotta per la democrazia è affacciato sulla sponda sud del nostro mare. Alla fine i siriani vinceranno. E se li avremo ignorati, quel giorno radioso per noi sarà di vergogna.

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