Qualche domanda a Mario Monti

mercoledì, 10 agosto 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Quando leggi (“New York Times”) che servirebbero 1400 miliardi di dollari per salvare l’Italia, beh, ti assalgono domande nervose in contrasto l’una con l’altra: possibile che abbiamo sperperato tanto, vivendo per anni al di sopra delle nostre possibilità? Ma chi saranno questi soloni che decretano il fallimento di una nazione fra le più floride del pianeta?
Difficile rispondere, tanto più che almeno dal 2008, quando è esplosa una crisi senza precedenti del capitalismo nordamericano e europeo, gli economisti non ne azzeccano più una. Più facile è decifrare, nella falsa neutralità delle statistiche, chi si è arricchito e chi si è impoverito nei trascorsi decenni di finanza allegra. L’abnorme estendersi dell’ingiustizia sociale resta a mio parere pericolosamente sottovalutata dai tecnici chiamati al capezzale dell’Occidente capitalistico vicino al tracollo delle sue roccaforti Usa e Ue.
Quando ho letto domenica scorsa sul “Corriere della Sera” il formidabile editoriale di Mario Monti sul “Podestà forestiero”, ovvero sul “governo tecnico sopranazionale” che (per fortuna) ha commissariato gli irresponsabili faccendieri della politica italiana, anziché diminuire i miei dubbi si sono accresciuti.
Sia ben chiaro: l’europeista Mario Monti, fautore di un’economia di mercato regolata con la severità da lui stesso dimostrata nel decennio in cui vigilò da Commissario sulle politiche antitrust dell’Ue, ha tutte le carte in regola per certificare il fallimento di una classe politica che fino a ieri blaterava di un’economia italiana sana, messa al riparo. Ma è proprio la sua autorevolezza (non a caso in molti lo indicano come possibile primo ministro di un eventuale governo di unità e emergenza nazionale) che mi sollecita a esprimergli le mie perplessità.
Chi sono i tecnici ai quali dovremmo affidarci per evitare il baratro e avviare il risanamento? Già nel passato la politica fu costretta a delegare loro responsabilità di governo. Che provenissero dalla Banca d’Italia (Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Tommaso Padoa Schioppa, certo non tutti della medesima caratura); o dall’accademia e dalla managerialità pubblica (Giuliano Amato, Romano Prodi e, a modo suo, ahimè subalterno all’affarismo berlusconiano, Giulio Tremonti). Spesso hanno mostrato rigore e lungimiranza nel ricoprire i loro incarichi, quando la situazione imponeva scelte difficili per la collettività. Ma ciò non ha impedito che ogni stagione dei tecnici al governo, qualunque fosse la loro coloritura politica, e nonostante l’appoggio ricevuto dalla sinistra e dai sindacati nell’attuazione dei sacrifici necessari, finisse sempre per assecondare una tendenza di fondo implacabile: arricchimento insensato di pochi; impoverimento dei ceti popolari e intermedi; calo dei redditi da lavoro e boom della finanza speculativa; inarrestabile aumento della disoccupazione e del precariato.
Con il senno di poi, nel 2011, possiamo ben dirlo: i tecnici hanno tamponato nei momenti di crisi l’inadeguatezza dei politici, ma sempre assecondando il predominio delle solite opache, impersonali “figure sacerdotali” (copyright Guido Rossi): società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e grandi multinazionali. Ciò non dipende da disonestà personale ma da costrizione: nessun “tecnico” riesce a concepire un’economia di mercato ove sia effettivamente limitato lo strapotere di queste “figure sacerdotali”, e dunque assunta come priorità l’esigenza di giustizia sociale.
Tale è ormai l’ostilità diffusa nei confronti dell’establishment, da rendere probabile che il malcontento popolare sommergerebbe anche i tecnici, così come i politici.

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