Dedicato ai cinici che volevano tenersi il rais

martedì, 23 agosto 2011

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
…e il prossimo sarà il siriano Assad! Ci sono voluti sei mesi di guerra, ma la rivoluzione degli arabi in cerca di libertà, dentro a un mondo contemporaneo che li aveva predestinati all’oppressione, continua inesorabile. Dopo il tunisino Ben Ali, dopo l’egiziano Mubarak, cade anche il tiranno libico Gheddafi, che invano ha cercato di trasformare un popolo in scudo umano a sua protezione, come se 42 (quarantadue!) anni di regime personale non fossero già troppi.
Esultiamo della caduta di Gheddafi, un fanfarone sanguinario reso temibile dai soldi del petrolio e dalla vigliaccheria degli occidentali. La sua sconfitta consolida la sequenza inesorabile che contraddistinguerà il 2011 come l’anno in cui si sbriciolano le dittature da noi ritenute falsamente infrangibili. Per questo il messaggio arriverà forte e chiaro da Tripoli a Damasco. Già trema Bashar al Assad, perché la fine di Gheddafi conferma imminente la sua. Ma la stessa paura in queste ore convulse la stanno provando gli ayatollah in Iran e i principi wahabiti in Arabia Saudita: l’impossibile è divenuto possibile.
Direte che è stata una sporca guerra, orchestrata frettolosamente dalla Francia e dal Regno Unito per secondi fini. Ma si è innestata su una sollevazione popolare autentica, così come terribilmente autentici furono i crimini perpetrati da Gheddafi per conservare il potere. Abbiamo sentito opporre argomenti uno dopo l’altro per negare che bisognasse impegnarsi dalla parte degli insorti di Bengasi per consentire la deposizione di Gheddafi. Il rais pagava troppo bene i suoi mercenari per cui era invincibile. Ne sarebbe scaturita una secessione della Cirenaica indipendente dalla Tripolitania. Il ritorno alle guerre tribali d’epoca precoloniale. L’instaurazione di un regime islamico qaedista. L’esodo (biblico!) di profughi a centinaia di migliaia. Tutte balle.
Il pacifismo di destra che si è contrapposto all’impegno lodevole della Nato, di Obama, di Cameron, di Sarkozy, seguiti controvoglia da Berlusconi mentre una Merkel sempre più irresoluta si asteneva come al solito, non ne ha azzeccata una. Ma per spiegarci lo scetticismo con cui un settore importante della nostra classe politica di governo ha voluto fino all’ultimo dissociarsi dall’impegno in Libia, basterebbe un poco di memoria.
Ve lo ricordate che meno di un anno fa, il 31 agosto 2010, nella caserma romana dei carabinieri intitolata a un eroe come Salvo D’Acquisto, il colonnello Muammar Gheddafi festeggiava con Silvio Berlusconi l’anniversario del Trattato di amicizia italo-libica stipulato da quei due a Bengasi ventiquattro mesi prima? Esibizione di cavallerizzi, discorsi di una noia mortale, ma soprattutto una corte di ministri e top manager untuosi nel rendere omaggio al dittatore. In quell’occasione mancavano solo le “gheddafine”, cioè le vallette italiane destinate al sollazzo del rais, gentilmente fornite a centinaia nel corso delle visite precedenti.
Fa impressione constatare com’è cambiato tutto in fretta. Malvolentieri ma Berlusconi è stato costretto a tradire il suo partner Gheddafi, pur dichiarando al tempo stesso che la Nato stava commettendo uno sbaglio. La Lega, orfana del trattato anti-immigrati di cui andava tanto orgogliosa, ha scommesso di nuovo dalla parte sbagliata della storia, sollecitando il governo a disattendere il patto internazionale sottoscritto. Sono cantonate, incomprensioni tipiche di chi non è più sincronizzato con lo spirito dei tempi.

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