La Torah spiegata ai giovani

venerdì, 16 settembre 2011

Vi propongo la mia introduzione al libro di Marc-Alain Ouaknin, “La Torah spiegata ai giovani” (Archinto editore).
E’ un libro per ragazzi, questo? Certo. Un libro per ragazzi che ci riporta all’infanzia del mondo e quindi è specialmente raccomandabile agli adulti. Seguendo il filo delle domande e delle risposte apprenderanno quale tesoro possa scaturire dall’incontro fra dei ragazzi curiosi e un sapiente umile; cioè disposto a mettersi in discussione. Gli adulti al pari dei ragazzi saranno coinvolti nel gioco dei significati delle parole, esperienza della massima serietà: perché attribuire la dovuta importanza ai significati delle parole ci conduce a esplorare dentro di noi i significati della vita. I nostri misteri, particelle essenziali di una memoria che si perpetua nell’interrogazione e nell’interpretazione del Creato.
Così la lettura di questo breve testo introduttivo alla Torah fornirà agli interessati, oltre i fondamentali parametri storico-culturali, l’occasione di misurarsi ciascuno a modo suo con i propri misteri. Esagero? Provare per credere: l’approccio contemporaneo alla Torah è sempre, necessariamente doppio. Vi è una dimensione razionalistica mirante a spiegare il mistero della persistenza, attraverso i millenni e le persecuzioni, del popolo ebraico. Neppure serberemmo un vago ricordo della sua esistenza, disperso com’è stato per oltre diciannove secoli, non fosse il popolo del Libro, il popolo della Scrittura. Dalla notte dei tempi la trasmissione in lingua originale della conoscenza della Torah, il rotolo di papiro in cui sono riunite le vicende fondatrici dell’ebraismo, e dunque la sua Legge, si perpetua come evento fenomenale.
La maiuscola per le parole Libro e Scrittura è certo un omaggio del credente al Dio che ispirò le cinque parti della Torah; ma è anche un moto di stupore per l’umana impresa che gli ha fatto attraversare le epoche, dalla notte dei tempi sino ad oggi. Consegnandoci la certezza, per l’appunto sacra, che si prolungherà nel futuro dell’umanità la medesima esperienza di lettura da destra a sinistra, senza consonanti eppure melodiosa, in una lingua mai morta seppure custodita da comunità minuscole e nascoste, salmodiata da cantori e trascritta da amanuensi generazione dopo generazione.
La perpetuazione della Torah come essenza di un popolo è vicenda portentosa, più ancora del ritorno degli ebrei nella loro Terra Promessa. Come avrebbero potuto conservarne l’anelito, del resto, se privi della Torah? Come potrebbero tuttora dividersi gli ebrei nell’interpretazione del proprio ruolo di testimonianza, finalizzata a che “per il tuo tramite siano benedetti tutti i popoli della terra” (più di cinquanta volte tale concetto è ripetuto nella Torah, a scanso di equivoci sul “popolo eletto”)?
Nella scarna liturgia religiosa ebraica la massima devozione è riservata al Libro. La cerimonia del sabato in sinagoga conosce un solo momento di solennità quando viene aperto l’armadio che lo custodisce, e il rotolo viene spogliato degli ornamenti per rivelarsi semplice calligrafia, racconto, Scrittura. Il contrario di un idolo. E’ considerato perciò un onore l’essere chiamati talvolta “a Sefer”, cioè, traducendo Sefer dall’ebraico, essere chiamati al Libro. Purtroppo solo pochi di noi sanno condurne ammodo la lettura dal papiro, con le difficoltà ritmiche e semantiche che comporta. Dunque ci limitiamo alle benedizioni d’esordio e di commiato, accontentandoci di fiancheggiare un sapiente dedito alla lettura vera e propria. In quel momento io provo tutto il disagio dell’analfabeta, insieme all’emozione di trovarmi così vicino al Libro. Lo potrò leggere con i punti sostitutivi delle vocali, o traslitterato in alfabeto latino, o meglio ancora tradotto in una lingua più familiare. Ma so già che tale ripiego comporta una perdita. Per esempio, non posso contestare l’obiettività della traduzione dei famosi versi di Genesi 12, quelli dell’incarico assegnato dalla voce del Signore al giovane Abramo, come riportati nelle pagine seguenti, e ben divulgati da Marc-Alain Ouaknin. Ma basta il mio modesto ebraico parlato di memoria familiare a farmi rimpiangere la perdita dell’incipit di quell’esortazione a mettersi per via, verso la Terra Promessa. Dice ad Abramo, la voce del Signore: “Lech lecha”, cioè un forte, quasi brutale “vattene” da lì dove ti trovi, dalla casa di tuo padre. Sconcertandoci per la coincidenza di significati ebraici fra il dire “vattene” e il dire “Lech le-cha”=vai-verso-te-stesso.
Cito questo caso per giungere al secondo piano di lettura della Torah che vi verrà proposto dalle pagine seguenti, oltre la spiegazione storico-culturale. Vi è una dimensione intima con cui ciascuno di noi fronteggia il Libro, cercandovi risposte e trovandovi riferimenti personali alla propria vicenda. La Torah è infatti un racconto di memoria, non un volume di storia. Deve la sua forza al nostro bisogno di immedesimazione e alla sua formidabile capacità di familiarizzarsi senza patire il salto temporale fra una generazione e l’altra. Pretende, tale memoria, che noi la riconosciamo attuale. Che interferisca nelle nostre vicissitudini di modo che ci riesca di ispirarle i nostri comportamenti.
Il popolo di lettori della Torah, ben più vasto del popolo ebraico, dovrà riconoscere nell’oggi il suo Egitto, i suoi percorsi di liberazione, la memoria circostante della schiavitù sempre in agguato. E troverà nel Libro un approccio all’introspezione dell’anima, dall’inconscio all’interpretazione dei sogni, oltre ai codici fondamentali della Legge regolatrice degli impulsi. Mi affascina sapere che in ebraico la parola “Halakha” con cui si definisce la tradizione codificata, la dottrina, letteralmente significa “cammino”. A partire da quel “Vattene!” rivolto ad Abramo, è un’identità dinamica, un “cammino” verso il futuro, quello che la Torah da millenni ci indica. Non una dogmatica antica, ma una spinta a interpretare con coraggio il presente.

Gad Lerner

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